aggiornamento (2016): ho aggiunto vari nuovi riferimenti; molti dei link inseriti nella prima versione di questo testo (2009) non portano più a nulla – fortunatamente i contenuti erano stati copiati scrupolosamente dalle fonti.
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nuova versione Wikipedia:
Classe Marconi (sottomarino)
La classe Marconi della Marina Militare Italiana doveva essere composta da due unità sottomarine d'attacco a propulsione nucleare (la prima delle quali battezzata "Guglielmo Marconi" la seconda "Enrico Toti", anche se il nome della seconda unità non fu stabilito al 100%, con proposte alternative quali "Galileo Galilei", "Alessandro Volta", "Archimede", "Leonardo da Vinci" ed "Enrico Fermi", nome, quest'ultimo, proposto anche per un rifornitore di squadra a propulsione nucleare) costruite presso Italcantieri (il nome dell'epoca di Fincantieri) alla fine degli anni cinquanta.
Il progetto
Avvalendosi anche delle esperienze compiute dagli statunitensi con il sottomarino sperimentale "Albacore", era stato progettato un sottomarino d'attacco a propulsione nucleare che avrebbe dovuto chiamarsi "Guglielmo Marconi" a cui avrebbe dovuto far seguito un'unità gemella. Il battello, simile allo "Skipjack" statunitense, avrebbe dovuto avere un dislocamento in immersione di 3 400 tonnellate e una velocità massima in immersione di 30 nodi.
La realizzazione del progetto, come già detto, necessitava della collaborazione degli Stati Uniti d'America ma il successivo rifiuto da parte di questi ultimi di proseguire la collaborazione (sulla base di una legge che vietava il trasferimento all'estero di conoscenze e tecnologie nucleari utilizzabili a fini militari) e altri impedimenti di carattere politico impedirono che l'impresa avesse seguito provocando l'abbandono del progetto.
Tra i timori degli statunitensi vi era anche quello che della tecnologia strategica venisse trasferita all'Unione Sovietica.
La costruzione
Diversamente da quanto fino ad allora noto, il 18 gennaio 2015 è comparsa una fotografia dalla Rassegna e Bollettino di Statistica del Comune di Taranto di Novembre-Dicembre 1957, che testimonia l'avvenuta impostazione, il 16 giugno 1957, del primo anello di scafo del sommergibile "Guglielmo Marconi", presso i Cantieri Navali di Taranto, quale costruzione n. 170.
Nel mese di Luglio 1959 (due anni dopo) il Ministro della Difesa Giulio Andreotti annuncia l'approvazione del governo per il progetto dell'S-521 “Guglielmo Marconi”, un sommergibile nucleare da attacco (SSN), quindi senza missili balistici, ma passo indispensabile per la successiva costruzione di veri SSBN. “La propulsione doveva essere affidata ad un impianto nucleare ad acqua pressurizzata da 30 MW di potenza termica, derivato dal modello S5W della Westinghouse e studiato dal CAMEN, che alimentava due turbine (alta e bassa pressione) accoppiate ad un diruttore. La potenza massima erogata sull'unico asse con elica a 5 pale era di 15.000 cavalli, cui doveva corrispondere una velocità massima continuativa di 30 nodi”.
Nel Luglio 1963 gli Stati Uniti rifiutano di soddisfare le richieste italiane di fornire uranio ed assistenza tecnica per realizzare il sottomarino nucleare “Guglielmo Marconi” ed il progetto viene annullato e, in sua vece, lanciato il programma per la nave da trasporto logistico "Enrico Fermi".
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disegni presso il Museo Navale di Venezia
modellino nell'atrio della caserma sommergibili di La Spezia
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Dal Marconi alla bomba
versione precedente Wikipedia
La classe Guglielmo Marconi della Marina Militare Italiana doveva essere composta da due unità costruite presso Italcantieri (il nome dell'epoca di Fincantieri) alla fine degli anni '50.
Avvalendosi anche delle esperienze compiute dagli statunitensi con il sottomarino sperimentale Albacore era stato progettato un sottomarino d’attacco a propulsione nucleare che avrebbe dovuto chiamarsi Guglielmo Marconi a cui avrebbe dovuto far seguito una unità gemella. L'unità, simile allo Skipjack americano, avrebbe dovuto avere un dislocamento in immersione di 3.400 tonnellate ed una velocità massima in immersione di 30 nodi. La realizzazione del progetto come già detto necessitava della collaborazione degli Stati Uniti, ma il successivo rifiuto americano di proseguire la collaborazione, sulla base di una legge che vietava il trasferimento all'estero di conoscenze e tecnologie nucleari utilizzabili a fini militari, e l'adesione dell'Italia al trattato di non proliferazione nucleare e altri impedimenti di carattere politico, impedirono che l'impresa avesse seguito provocando l'abbandono del progetto. Tra i timori degli statunitensi vi era anche quello che tecnologia strategica venisse trasferita all'Unione Sovietica.
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SSN Guglielmo Marconi
tipo
sottomarino
classe
Marconi
costruttori
Italcantieri, ora Fincantieri spa
ordine
luglio 1959
caratteristiche generali
dislocamento
in emersione 2.300 t
e in immersione 3.400 t
lunghezza
83 m
larghezza
diametro: 9,55 m
propulsione
1 reattore nucleare CAMEN (derivato dal Westinghouse S5W) da 30 MW di potenza termica e 15.000 shp, un’elica a 5 pale
velocità
30 nodi
armamento
siluri: 6 tubi da 533 su due file orizzontali da 3 con 30 siluri
* ne “esistono tutt'oggi 2 modellini, uno presso palazzo Marina a Roma e l'altro alla caserma Scirè di la Spezia (fonte)”.
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Nella monografia sulla MMI delle EDAI dice che fu annunciato dal Ministro della Difesa nel luglio 1959. Specifiche previste: lunghezza fuori tutto 83 metri, diametro massimo scafo resistente 9,55 metri, dislocamento 2.300 tonnellate (3.400 immerso).
"La propulsione doveva essere affidata ad un impianto nucleare ad acqua pressurizzata da 30 MW di potenza termica, derivato dal modello S5W della Westinghouse e studiato dal CAMEN, che alimentava due turbine (alta e bassa pressione) accoppiate ad un diruttore. La potenza massima erogata sull'unico asse con elica a 5 pale era di 15.000 cavalli, cui doveva corrispondere una velocità massima continuativa di 30 nodi."
"La carena si presentava come un solido di riduzione (serie 58) le cui forme erano derivate dalle esperienze effettuate dall'US Navy con il battello sperimentale Albacore, e che permetteva lo sviluppo di elevate velocità in immersione. La manovrabilità sarebbe stata assicurata da superfici di governo poppiere cruciformi (timoni orizzontali e verticali), mentre i timoni orizzontali di prora erano posizionati sulla falsatorre allo scopo di migliorare le prestazioni di sensori elettroacustici."
4 paratie stagne delimitavano il locale siluri (6 tubi da 533 su due file orizzontali da 3 con 30 armi di riserva), il compartimento destinato al controllo dell'unità e ai locali di vita (su 4 livelli), il compartimento reattore, il compartimento dell'impianto di distribuzione dell'energia elettrica e del sottostante gruppo diesel-generatore di emergenza, e, infine, il compartimento del gruppo propulsore ed i due gruppi turbo-alternatori con una potenza unitaria di 1.800 kW.
Era prevista una spesa di 30 miliardi di lire del 1959, cifra che rendeva utopistico il proseguimento del progetto, date le difficoltà di bilancio delle FFAA. Oltre a ciò mancò la disponibilità americana a fornire la necessaria assistenza tecnico-logistica. Il Marconi comunque non fu l'unico progetto relativo ad unità a propulsione nucleare, quanto piuttosto quello su cui si concentrarono maggiormente le attenzioni di detrattori e fautori di una marina militare di rango mondiale.
Il punto in cui il progetto fu interrotto non lo conosco, ma credo non si andò mai oltre gli studi di massima.
Nel libro è presente la foto in b/n di un modellino (probabilmente esposto ad una fiera): appare non troppo diverso dal tipico sottomarino classe Los Angeles, quanto a forme esteriori.
(fonte)
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Sottomarino Nucleare Italiano "Marconi"
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Il programma nucleare della MMI
In quel periodo [anni sessanta] la Marina, al cui vertice era dal maggio del 1962 l'ammiraglio Ernesto Giuriati, manifestò ufficialmente il proprio interesse verso il naviglio a propulsione nucleare, con il progetto per un sottomarino d'attacco battezzato Guglielmo Marconi. L'unità, simile allo Skipjack americano, avrebbe dovuto avere un dislocamento in immersione di 3.400 tonnellate, una velocità massima in immersione di 30 nodi e una dotazione siluristica di 30 armi, il tutto per un costo totale di circa 30 miliardi. Era tuttavia palese che senza la collaborazione degli Stati Uniti il progetto non avrebbe mai potuto concretizzarsi; nonostante gli sforzi dell'allora Ministro della Difesa Giulio Andreotti, il governo di Washington rifiutò di collaborare, sulla base di una legge che vietava il trasferimento all'estero di conoscenze e tecnologie nucleari utilizzabili a fini militari; tale atteggiamento finì col provocare l'abbandono del progetto da parte italiana. Nonostante l'esito di questa vicenda, l'interesse della Marina Militare verso la realizzazione di piattaforme navali a propulsione nucleare non si affievolì, sfociando pochi anni più tardi nell'idea di un'unità da supporto logistico/rifornimento di squadra il cui progetto iniziò a prendere corpo nel dicembre del 1966, con la firma di una serie di accordi fra la MM, il CNEN e alcune industrie italiane. La nave, battezzata Enrico Fermi, avrebbe dovuto avere una lunghezza di 175 metri e un dislocamento di 18.000 tonnellate; un reattore da 80 MW avrebbe fornito la potenza per gli usi di bordo, inclusi i 22.000 hp necessari per la propulsione. Anche per tale progetto era però necessario un minimo di collaborazione da parte di nazioni già in possesso del know-how nucleare indispensabile per realizzare impianti navali di tale potenza. Le speranze coltivate in tal senso vennero nuovamente disattese, mentre il fallimento delle prime esperienze d'esercizio dei mercantili* a propulsione nucleare realizzati da alcuni paesi occidentali convinse alla fine la Marina dell'opportunità di abbandonare le proprie ambizioni nel settore.
(fonte non più disponibile, sostituita da questa anodina)
* cfr. NS Lenin e NS Savannah, Nave senza fumo.
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da Il Potere nucleare delle F.A. Italiane dal 1953 al 1992
di Vincenzo Meleca
conferenza 2 aprile 2014 presso UNUCI Milano
Il mancato potere nucleare della Marina
Nella seconda metà degli anni ‘50 Marina mise in atto varie iniziative volte sia alla sperimentazione di sistemi di propulsione nucleare, sia all’impiego di vettori d’arma strategici.
La prima iniziativa, volta anche -se non soprattutto- a colmare, avvalendosi dell'esperienza e della capacità dei docenti universitari pisani, la lacuna circa le proprie conoscenze nel settore dei sistemi di propulsione nucleare, si concretizzò con la creazione nel 1956 di un centro ricerche all'interno del comprensorio dell'Accademia Navale di Livorno: fu così che nacque il C.A.M.E.N. (Centro per le Applicazioni Militari dell'Energia Nucleare)[1] e che si sperimentò un piccolo reattore nucleare sperimentale, l’ RTS-1 “Galileo Galilei”, costruito poi a San Piero a Grado, vicino a Pisa, ove nel 1961 si trasferì il Centro.
Logica conclusione delle ricerche era comunque senz’altro quella di costruire in prospettiva unità militari a propulsione nucleare.
L’iniziativa fu seguita con attenzione dagli Stati Uniti e dall’US Navy, ma quando si trattò di passare alla fase realizzativa, con la costruzione di un sottomarino, il Guglielmo Marconi (1959) e di una grande unità di supporto logistico e di rifornimento di squadra, l’Enrico Fermi (1966), gli USA misero il veto, temendo che, da un lato, l’Italia potesse acquisire la possibilità di costruire armi nucleari e, dall’altro che, in considerazione della forte presenza in Italia di componenti politiche comuniste, vi fosse un elevatissimo rischio che le tecnologie potessero essere trasferite all’Unione Sovietica ed ai Paesi del Patto di Varsavia.
[1] Il 13 luglio 1985 il C.A.M.E.N. diventa C.R.E.S.A.M. (Centro Ricerche E Studi Applicazioni Militari) e quindi, il 28 aprile 1994, con Decreto del Ministro della Difesa, viene quindi istituito il C.I.S.A.M. (Centro Interforze Studi per le Applicazioni Militari). Fino al 1998 alle dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Difesa, il C.I.S.A.M., con Decreto Ministeriale 20 gennaio 1998, passa alle dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Marina.
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NS Enrico Fermi
tipo
unità logistica a propulsione nucleare
dimensioni
lunghezza di 170,5 metri
larghezza di 14 m
dislocamento
17.000 tonnellate a pieno carico
propulsione
reattore nucleare da 80 MW
armamento
4 cannoni Oto Melara da 127mm/54 Compatto
4 cannoni Oto Melara da 76mm/62 SR
componente di volo
hangar e ponte di volo per elicotteri SH-3D
programma
Unità logistica a propulsione studiata a fine anni 60. Il progetto non venne mai realizzato per la mancanza di accordi internazionali per la fornitura del propulsore all'Italia.
Il primo tentativo fu con gli stati uniti per ottenere l'uranio arricchito che avrebbe alimentato un reattore Westinghouse ma l'amministrazione Johnson si rifiuto perchè il programma aveva caratteristiche militari come avenne anni prima per il sottomarino Marconi.
L'uranio venne ottenuto dalla Francia e le prime 2 tonnellate per far funzionare il reattore ROSPO* presso i laboratori di Casaccia del CNEN e nel gennaio 1970 il reattore divenne critico. Ulteriori interferenze della Commissione Europea e il veto degli Stati Uniti bloccarono il progetto che sembrava ormai sicuro.
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Navi Da Crociera A Propulsione Nucleare
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* Vanno citati, tra i reattori di potenza, quelli utilizzati per la trazione. Le necessità, in questo caso, sono quelle di leggerezza e ottimo contenimento delle radiazioni: a tale scopo, la filiera PWR è generalmente usata, in quanto permette di tenere turbine e generatori in zona sicura, essendo il fluido esente da radiazioni. In realtà il circuito primario è stato realizzato anche con fluidi diversi, come nel reattore italiano R.O.S.P.O. (Reattore Organico Sperimentale Potenza Zero), realizzato come prototipo per la futura (e mai realizzata) nave Enrico Fermi a propulsione nucleare, in cui venivano utilizzati prodotti organici cerosi, simili ai comuni oli diatermici - sempre allo scopo di ridurre le dimensioni. Malgrado i molti progetti (la nave tedesca Otto Hahn, quella americana Savannah, e altre sono state effettivamente realizzate, ma senza grande successo), la propulsione nucleare navale è oggi usata solo nei sottomarini militari (e alcuni di ricerca), nelle grandi portaerei e nei rompighiaccio russi della classe Lenin. (fonte)
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Guglielmo Marconi ed Enrico Fermi
Giulio Andreotti, che dell’accordo segreto del 1972 con Washington è stato uno dei registi, resta dunque fermo sulle sue posizioni: gli americani devono restare. Ma sul contenuto di quel protocollo segreto e del come sia nato, il senatore a vita è avaro di parole. Non è infatti mai andato oltre le generiche spiegazioni di esigenze di geopolitica. Eppure, dietro la storia della nascita della base di Santo Stefano ci sarebbe anche una lunga storia tutta italiana nella quale non sarebbe secondaria l’ambizione delle alte gerarchie militari italiane, di avere un programma nucleare. Guarda caso, fu lo stesso Giulio Andreotti a ufficializzare questo sogno dei generali e degli ammiragli italiani, intervenendo al Senato nel 1959, quando era ministro della Difesa. E in quell’occasione annunciò la costruzione di un sommergibile nucleare per il quale era già pronto il nome: il Guglielmo Marconi. Ne precisò perfino le caratteristiche: dislocamento 3.400 tonnellate, lunghezza 83 metri, larghezza 9,60, autonomia 12 mila ore di moto. E cioé, circa un anno e mezzo di navigazione. Costo: 30 miliardi di lire di allora. Una cifra colossale.
C’era solo un problema da superare: convincere gli Stati Uniti a fornire l’uranio arricchito per il reattore nucleare. Falco Accame, ex presidente della Commissione Difesa della Camera, ha la memoria lunga e riucorda che, il 22 dicembre del 1962, in occasione del varo dell’incrociatore Duilio a Castellamare di Stabia, Andreotti disse: «Noi desideriamo portare avanti al più presto il progetto della costruzione di un sottomarino nucleare italiano che andrà incontro alle aspirazioni di fondo della nostra Marina e rappresenterà altresì un passo in avanti verso quel progetto tecnico a cui tutti dobbiamo cooperare».
Ma agli americani non piacevano molto le ambizioni della Marina italiana. Il primo risultato fu un cambiamento del “programma nucleare” italiano. E infatti Andreotti, il 18 settembre 1963, in Parlamento parlò dell’impegno «a relizzare un’unità di superficie a propulsione nucleare, primo passo verso la costruzione del sommergibile atomico, he resta l’obiettivo finale».
Il più fiero oppositore del programma nucleare “made in Italy” era l’ammiraglio Hyman Rickover, l’ideatore dei sommergibili atomici statunitensi. Nel 1964 Andreotti disse al Corriere della Sera che dall’originario progetto del sommergibile si era passati all’idea «di una nave civile-militare a propulsione nucleare che si sarebbe chiamata Enrico Fermi. Anche qui furono presentati i dati tecnici: 18 mila tonnellate, 174 metri di lunghezza e una velocità di 20 nodi.
Niente da fare: Rickover bocciò anche questa ipotesi. Gli italiani si rivolsero allora ai francesi, con i quali dal 1961 esisteva un progetto di collaborazione per la produzione di uranio arricchito negli impianti di Pierrelatte. Ma gli americani ci misero lo zampino e non se ne fece niente.
Nel 1966, l’allora ministro della Difesa, il socialdemocratico Tremelloni cercò diplomaticamente di esaltare soprattutto gli aspetti civili della ricerca nucleare, ma Andreotti lo gelò: «Anche il cannochiale di Galileo è nato da una commessa militare, ma l’umanità ne ha avuto benefici immensi». Il problema politico vero era dunque quello di convincere gli americani a togliere il veto. E’ in questo contesto che nacquero gli accordi per la concessione agli Usa della base della Maddalena. Quasi una sorta di “regalo” per ammorbidire certe posizioni di diffidenza. Niente da fare: gli americani in cambio passarono all’Italia alcuni sommergibili convezionali ormai in odore di dismissione. Ironia della sorte: alla fine nei nostri mari navigano sommergibili nucleari. Ma hanno la bandiera a stelle e strisce e non il tricolore.
(fonte)
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Il sogno nucleare del “mandarino” e il veto americano
Andreotti firmò l’accordo con Washington per la Maddalena in cambio di uranio per il sottomarino atomico made in Italy
di Piero Mannironi La Nuova Sardegna 5 luglio 2013
Della base della Us Navy alla Maddalena Giulio Andreotti non amava parlare. Perché si sarebbe avventurato in un terreno per lui politicamente scivoloso. Era stato infatti il regista dell'accordo bilaterale firmato a Washington nel luglio del 1972 e che, in palese violazione della Costituzione, non era stato ratificato dal Parlamento. Poi, perché dietro lo sbarco dello Zio Sam in Sardegna si nascondeva una sua personale, bruciante sconfitta. E il "divino Giulio", per sua natura discreto, non ha mai amato parlare dei suoi fallimenti.
Per raccontare questo capitolo poco conosciuto della storia della base per sommergibili nucleari americani alla Maddalena, bisogna tornare indietro nel tempo, fino al 1959. Andreotti era allora ministro della Difesa ed era rimasto affascinato dalle ambizioni delle alte gerarchie militari italiane che volevano un programma nucleare. E in quel 1959 intervenne al Senato per annunciare che condivideva e sosteneva il sogno di generali e ammiragli: la costruzione di un sommergibile nucleare per il quale era già pronto il nome: il Guglielmo Marconi. Ne precisò perfino le caratteristiche: dislocamento 3.400 tonnellate, lunghezza 83 metri, larghezza 9,60, autonomia 12mila ore di moto. E cioè, circa un anno e mezzo di navigazione. Costo: 30 miliardi di lire di allora. Una cifra colossale.
C'era però un problema da superare. Problema non da poco: convincere gli Stati Uniti a fornire l'uranio arricchito per alimentare il reattore nucleare. Falco Accame, ex presidente della Commissione Difesa della Camera, ha la memoria lunga e ricorda che, il 22 dicembre del 1962, in occasione del varo dell'incrociatore Duilio, a Castellamare di Stabia, Andreotti disse: «Noi desideriamo portare avanti al più presto il progetto della costruzione di un sottomarino nucleare italiano che andrà incontro alle aspirazioni di fondo della nostra Marina e rappresenterà altresì un passo in avanti verso quel progetto tecnico a cui tutti dobbiamo cooperare».
Ma agli americani non piacevano molto i progetti della Marina italiana. Si sviluppò una trattativa segreta che portò a un sostanziale cambiamento del "programma nucleare" italiano. E infatti Andreotti, il 18 settembre 1963, in Parlamento parlò dell'impegno "a realizzare un'unità di superficie a propulsione nucleare, primo passo verso la costruzione del sommergibile atomico, che resta l'obiettivo finale".
Il più fiero oppositore del programma nucleare "made in Italy" era l'ammiraglio statunitense Hyman Rickover, l'ideatore dei sommergibili atomici statunitensi.
Nel 1964 Andreotti disse al Corriere della Sera che dall'originario progetto del sommergibile si era passati all'idea «di una nave civile-militare a propulsione nucleare che si sarebbe chiamata Enrico Fermi». Anche qui furono presentati i dati tecnici: 18mila tonnellate, 174 metri di lunghezza e una velocità di 20 nodi.
Niente da fare: Rickover fu irremovibile e bocciò anche questa ipotesi. I militari italiani si rivolsero allora ai francesi, con i quali dal 1961 esisteva un progetto di collaborazione per la produzione di uranio arricchito per uso civile negli impianti di Pierrelatte. Ma gli americani ci misero lo zampino "avvelenando" la trattativa. E così non se ne fece niente.
Nel 1966, l'allora ministro della Difesa, il socialdemocratico Tremelloni, cercò di alleggerire le pressioni dei militari cercando diplomaticamente di esaltare soprattutto gli aspetti civili della ricerca nucleare. Ma Andreotti lo gelò con una battuta folgorante: «Anche il cannocchiale di Galileo è nato da una commessa militare, ma l'umanità ne ha avuto benefici immensi».
Il problema politico vero era dunque quello di convincere gli americani a togliere il veto. Andreotti cominciò così a tessere i fili di una diplomazia segreta con Washington, mettendo sul tavolo della trattativa la concessione alla Us Navy di una base alla Maddalena. Ironia della sorte, proprio per sommergibili nucleari. È in questo contesto che nacquero gli accordi del 1972. Quasi una sorta di "regalo" per ammorbidire le diffidenze. Ma gli americani non onorarono l'impegno e passarono all'Italia alcuni sommergibili convenzionali ormai in odore di dismissione. Alla fine nei nostri mari hanno sì navigato i sommergibili nucleari, ma con la bandiera a stelle e strisce.
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La bomba italiana…
Nel 1980, per alcuni mesi, quando serpeggiarono notizie di difficoltà nelle forze armate, l’Italia ipotizzò di costruire l’atomica. La rivelazione è dell’ex ministro della difesa, Lelio Lagorio, che ne parla nel suo recentissimo volume L’ora di Austerlitz. 1980: la svolta che mutò l’Italia che reca la prefazione di Enzo Bettiza ed è edito da Polistampa. Lagorio ricorda che il 1980 fu decisivo rispetto al tema del dispiegamento degli euromissili. «Quanto alla bomba italiana - scrive l’ex ministro - il fatto che gli euromissili avessero dato al Paese un superiore rango internazionale suggerì a qualche ambiente militare l’idea che una bomba italiana avesse stabilmente assicurato tale rango. La bomba costava poco e il nostro apparato scientifico-tecnico-industriale era in grado di produrla. Con me ne parlò espressamente il capo di stato maggiore ammiraglio Torrisi (luglio 1980). Più tardi l’idea venne risollevata dal mio sottosegretario alla difesa Ciccardini in sintonia con l’esperto Stefano Silvestri (autunno 1982). Era vero che l’Italia aveva ratificato il trattato di non proliferazione nucleare, ma da poco e dopo molte incertezze e resistenze. Un ripensamento era sempre possibile. Tanto più se lo si fosse sostenuto con una autonoma iniziativa nel Mediterraneo. In quest’area l’Italia assieme alla Francia poteva far nascere una "Piccola Nato" con i Paesi rivieraschi per dare a ciascuno un maggior senso di sicurezza. Un force de frappe nucleare italo-francese avrebbe garantito alla coalizione mediterranea un margine superiore di influenza e credibilità, senza contare che l’avvento di un nuovo robusto protagonista sullo scacchiere euro-africano avrebbe assunto un rilievo inusitato nella politica internazionale». Sin qui Lagorio. Falco Accame, all’epoca impegnato nel Psi nel settore militare - fu anche presidente della Commissione difesa - ricorda che a suo tempo ci furono «sussurri e bisbiglii circa il segretissimo progetto di costruire un’arma nucleare. Il progetto era legato alle tecnologie che in Italia era state sviluppate in alcuni centri di ricerca nucleare e soprattutto che erano state messe a punto presso il Camen, il centro di applicazioni militari per l’energia nucleare di San Piero a Grado, presso Pisa (oggi Cisam). Il Camen avrebbe dovuto provvedere alla realizzazione dei reattori nucleari per il sommergibile Marconi e per la nave mercantile Fermi». «Nel libro di Lagorio non figurano - spiega ancora Accame - alcune premesse a questo progetto ed anche all’altro di realizzazione della force de frappe. Il primo novembre 1968 la Francia ci aveva fornito l’uranio arricchito per il reattore della Casaccia, reattore che iniziò a funzionare nel ’70. Nel giugno ’71 l’ambasciatore Quaroni, lo era stato anche in Francia, in un articolo su "La revue de deux mondes" aveva parlato di possibili accordi tra Italia e Francia per un programma nucleare. Gli Usa non vollero fornirci l’uranio necessario per i progetti per la realizzazione del sommergibile e della nave nucleare. Sui programmi del Camen riferì in una intervista su un importante settimane italiano l’allora direttore, ammiraglio Avogadro di Valdengo».
(fonte)
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… e l’atomica europea
Nel 1952 era stato creato il Cnrn (Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari) e gli era stata affidata la costruzione di un primo reattore. Nel 1956, presso l’Accademia Navale di Livorno, era entrato in funzione il Camen (Centro per l’Applicazione Militare dell’Energia Nucleare). I primi risultati furono visibili negli anni seguenti. Nel 1958 cominciò la costruzione della centrale di Latina, nel dicembre 1962 il reattore divenne critico e nel maggio dell’anno successivo, come ricorda Cacace, cominciò la produzione di energia elettrica. Erano cominciati contemporaneamente i lavori per un’altra centrale, sul Garigliano, che avrebbe prodotto energia nel gennaio del 1964. Nel frattempo anche due grandi aziende private, FIAT e Montecatini, erano scese in campo. Un reattore di ricerca fu installato a Trino Vercellese e cominciò a produrre energia nel 1964. Esistevano quindi in Italia, negli anni Sessanta, le condizioni per una politica nucleare che avrebbe permesso al paese, tra l’altro, di affrontare con maggiore tranquillità e indipendenza le grandi crisi energetiche del 1973 e del 1979.
La parte militare del programma, tuttavia, era stata abbandonata lungo la strada. […] Le vicissitudini della politica italiana dopo la crisi del centro-sinistra e le elezioni del 1972 ebbero l’effetto di riaprire la discussione nel governo sulla scelta atomica della politica estera italiana. Esistevano ancora ambiziosi programmi per l’impiego civile dell’energia nucleare. E un programma civile poteva sempre, all’occorrenza, avere risvolti e implicazioni militari. Era civile o militare, ad esempio, la nave Enrico Fermi (un’unità di supporto logistico a propulsione nucleare) che la Marina militare aveva deciso di costruire sin dal dicembre del 1966? Quando il reattore della nave divenne critico e l’Italia cercò di comprare le due tonnellate di uranio arricchito necessarie al suo funzionamento, gli Stati Uniti sostennero che il progetto aveva caratteristiche militari e negarono il loro appoggio. […] Molto di ciò che accadde negli anni successivi, dai laboriosi programmi energetici adottati dopo gli shock petroliferi al fatale referendum del novembre 1987 con cui i programmi del “nucleare civile” vennero resi impossibili, è il risultato delle due grandi rinunce degli anni Cinquanta e Settanta. Dopo essere stato uno dei paesi più avanzati e intraprendenti nel campo delle ricerche nucleari, l’Italia aveva progressivamente smantellato le sue migliori istituzioni ed era uscita da uno dei settori decisivi e più promettenti della scienza moderna. Il danno è stato irreparabile. Il paese ha perduto prestigio e potere negoziale, è diventato, per le sue necessità energetiche, pericolosamente vulnerabile, non è più in grado di tenere il passo con la scienza e la tecnologia dei paesi più dinamici. Non basta. Gli argomenti che hanno giustificato queste scelte sono clamorosamente contraddetti dalla realtà. Il paese che ha rinunciato alle armi atomiche in nome della pace ospita basi nucleari straniere. Il paese che ha rinunciato al nucleare civile in nome della salute e dell’ambiente è stato esposto alle radiazioni di Cernobyl e importa energia elettrica prodotta da impianti nucleari a poche centinaia di chilometri dalle sue frontiere. La responsabilità, in ultima analisi, è di un sistema politico fragile, oscillante, più attento agli umori della pubblica opinione che agli interessi fondamentali del paese.
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Quell’ultima battaglia del sottomarino atomico
UN LIBECCIO umido soffiava a raffiche sul litorale pisano. La spiaggia era deserta. Nubi minacciose correvano verso l'interno accavallandosi nel cielo grigio di quella mattina di marzo. Due settimane all'inizio della primavera, ma sembrava pieno inverno.
Una strada rettilinea tagliava la fitta pineta. Il vento la infilava come un canale e correva dritto fino a sbattere sui volti inespressivi dei due carabinieri a guardia del cancello. La rete di recinzione era sormontata dal filo spinato. All'interno, tra pini secolari, sorgeva una piccola città di edifici a due o tre piani dalle linee pulite e razionali. Era il più grande centro di ricerca delle forze armate italiane. Sul piazzale dell'edificio della direzione erano parcheggiati ordinatamente quattro furgoncini verde militare e una Fiat 128 blu.
DALLA porta a vetri uscì un ufficiale, guardò distrattamente la sua auto, si sistemò la tesa del cappello fissando con occhi vuoti la fontana a pianta romboidale e, infine, s'incamminò lungo il viale alberato. Il vento spruzzava tutt'intorno l'acqua del getto, fino a bagnare la targa di bronzo affissa alla parete. Uno scudo medioevale con al centro un atomo stilizzato. Sulla corona la scritta: Camen, Centro applicazioni militari energia nucleare. L'élite delle forze armate, in quell'epoca cupa in cui l'apocalisse nucleare sembrava imminente e l'Italia si trovava sulla linea del fronte, tra Nato e Patto di Varsavia. In quel centro di ricerca il simulatore di onda d'urto, un cannone lungo dieci metri con una bocca di settanta centimetri, testava su mezzi e materiali gli effetti di un'eventuale esplosione nucleare. Uno spiazzo, detto poligono, era attrezzato per simulare il fall-out radioattivo sui carri armati. Il laboratorio di radiopatologia compiva esperimenti su cavie e primati per valutare gli effetti sanitari di una guerra nucleare. Ma i sogni, o forse gli incubi, degli uomini del Camen erano stati molto più ambiziosi.
Nell'archivio del comandante, presidiato da due carabinieri con l'ordine di perquisire chiunque entrasseo uscisse, erano conservati i disegni e gli schemi definitivi del missile balistico Alfa. Milleseicento chilometri di gittata, l'equivalente italiano del missile Polaris della Marina degli Stati Uniti. E non solo. In uno schedario chiuso con doppie chiavi e protetto da sigilli c'era la ragione stessa della fondazione di quel centro alla fine degli anni Cinquanta, oltre vent'anni prima: il progetto del sottomarino a propulsione nucleare S-521 "Guglielmo Marconi". Ottantatré metri di lunghezza, dieci metri di diametro, tremilaquattrocento tonnellate di dislocamento, sei tubi di lancio, dodicimila ore di autonomia in immersione.
L'arma definitiva di quella strana guerra, mai dichiarata, tra blocchi contrapposti iniziata trent'anni prima. Qualunque cosa potesse succedere alla madrepatria, un sommergibile in immersione, armato di missili balistici a testata nucleare, sarebbe stato invulnerabile e in grado di scatenare la più spaventosa rappresaglia. «La costruzione del sommergibile atomico resta l'obiettivo finale a cui tutti dobbiamo cooperare» aveva dichiarato nel settembre del 1963 il ministro della Difesa Giulio Andreotti alla Camera dei deputati.
E il primo passo verso un sommergibile nucleare è costruire un reattore. Uno piccolo e semplice, perché non deve certo illuminare una città.
Possibilmente a uranio altamente arricchito, lo stesso usato per la fabbricazione delle testate. Un Rts-1 della statunitense Babcok&Wilcox, ad esempio. Ufficialmente un reattore di ricerca, non un propulsore per sommergibili, ma con le caratteristiche giuste per diventarlo, un giorno. Un reattore civile e quindi esportabile in Italia nello spirito della Conferenza di Ginevra del 1955. Per questo nel 1958 il ministero della Difesa lo aveva fatto acquistare dal Comitato nazionale per le ricerche nucleari. E per questo fu costruito in pochi mesi in quella bella pineta sul litorale pisano.
Il tozzo cilindro dell'edificio di contenimento spuntava appena sopra le cime dei pini. Sul fianco svettava il camino, l'unica uscita dell'aria contenuta all'interno. Tra le nubi si aprì un varco e il sole fioco illuminò la facciata a mattoncini blu del basamento quadrato. La pioggerella discontinua minacciava tempesta e bagnava la tesa del cappello e i fregi sulle spalline dell'ufficiale che camminava solitario lungo il viale.
Era solo capitano di vascello, ma era il più alto in grado del centro. I suoi predecessori erano stati tutti generali o ammiragli. Il personale aveva afferrato immediatamente il senso di quell'avvicendamento e non l'aveva presa bene. Le guardie sotto la tettoia d'ingresso scattarono sull'attenti quando lo videro attraversare il piazzale. L'ufficiale, scuro in volto, passò senza degnarli.
All'interno si lasciò ispezionare con il contatore Geiger, le norme di sicurezza lo imponevano anche in entrata. Salì la scala metallica, attraversando i piani come i ponti di una nave fino al vestibolo del vano piscina. La porta si richiuse alle sue spalle e rimase per alcuni secondi nella camera di decompressione. Nelle orecchie sentì un lieve fastidio finché la porta successiva si aprì con un sibilo. La sala vasche gli ricordava la cupola di una cattedrale. Le pareti azzurre circolari, il tetto bombato e tutt'intorno il ballatoio del corridoio visitatori. Al centro la piscina. Ventidue metri di lunghezza e nove di profondità. Poteva contenere un palazzo di tre piani.
Una delle due estremità si allargava in una forma arrotondata e sopra poggiava immobile il carroponte. Sul corrimano un salvagente con la scritta "Galileo Galilei", come se fosse una nave e qualcuno potesse veramente cadere in acqua. L'ufficiale non ne aveva mai colto l'involontaria ironia.
Percorse il pavimento di linoleum rosso fino alla cabina di comando, una struttura di metallo e vetro che si affacciava sulla piscina. Il capoturno, in camice bianco, salutò l'ufficiale superiore. Avrà avuto meno di trent'anni. Capelli corti sulla nuca e scriminatura come tagliata con il bisturi.
«Siamo pronti» fece il giovane uomo.
Due pareti erano coperte di strumentazione. Quadranti a lancette, spie luminose, pulsanti, interruttori, manopole.
Alla consolle di comando era seduto un tecnico. Un altro fissava un rullo di carta che scorreva dietro un vetro. Il pennino tracciava una riga nera rettilinea. «Procedete pure» ordinò l'ufficiale con voce un po' troppo squillante per risultare autoritaria. Nel vano piscine si accese un lampeggiante. Il tecnico alla consolle azionò un interruttore. Una lancetta cominciò a ruotare lentamente. Il pennino sul rullo si mosse.
«Stiamo estraendo le barre di controllo» spiegò il capoturno, pentendosi subito di aver aperto bocca e di aver usato quel tono. Non si spiega a un superiore, tutt'al più si informa. Ma il tecnico sapeva bene perché avevano mandato lì quell'ufficiale, un militare di carriera senza nessuna competenza in campo nucleare.
Il capitano di vascello si avvicinò al vetro che dava sulla piscina. Tutta quella tecnologia lo metteva in soggezione.
Lui preferiva il mare, per questo era diventato ufficiale di marina. Sul pelo dell'acqua vide alzarsi le barre. Una spia luminosa sulla consolle si rifletté sul vetro.
«Reattore critico» dichiarò il tecnico che fissava il rullo. La voce tradiva una nota di emozione. Era iniziata la fissione dell'uranio contenuto nelle barre di combustibile dentro la piscina. Una luminescenza azzurrognola rischiarava l'acqua. L'effetto Cherenkov. Una luce che esiste solo dentro un reattore nucleare. Poche persone al mondo l'hanno vista, perché pochissimi sono i reattori a piscina aperta come l'Rts-1.
Ma l'ufficiale non condivideva l'entusiasmo dei suoi tecnici per quella visione. In fondo, per lui, era solo una luce blu.
«Duecento chilowatt in crescita» avvertì il tecnico alla consolle mentre muoveva rapido manopole e interruttori.
Sudava. Il pennino sul rullo sobbalzava. Sulla parete dietro si accesero le luci delle pompe. L'altro tecnico ruotò un paio di interruttori. L'acqua scaldata dalla fissione veniva ora estratta e portata allo scambiatore a fasci tubieri all'esterno dell'edificio.
"Cinque megawatt» dichiarò infine il tecnico. Era la massima potenza. Un rombo sordo proveniva dalla stessa struttura dell'edificio, come se una forza primordiale nelle viscere della Terra lo scuotesse.
Dallo scambiatore a un centinaio di metri dalla cupola si alzava una nube di vapore, quasi indistinguibile dal cielo plumbeo che la sovrastava.
Per ventiquattro lunghi minuti il reattore ruggì come una bestia ferita.
«Giù le barre!» ordinò infine il capoturno, con lo stesso tono con cui avrebbe ordinato di fare fuoco a un plotone di esecuzione. Aveva gli occhi bagnati di lacrime.
«Spento» fece il tecnico alla console dopo pochi secondi.
L'orologio a muro segnava le undici e nove minuti. Era il 7 marzo 1980. L'ultima accensione del reattore. La missione del tenente di vascello era chiudere le attività del centro.
Nessun'altra sperimentazione, nessun ulteriore studio o sviluppo. L'Italia aveva firmato il trattato di non proliferazione. Si era impegnata a cessare ogni ricerca nucleare in campo militare. Non ci sarebbe stato più alcun missile balistico italiano, tanto meno un sommergibile nucleare. In caso di conflitto l'Italia sarebbe stata solo un campo di battaglia.
MASSIMILIANO PIERACCINI Repubblica 24 luglio 2011
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missile Alfa
da L'atomica Italiana
Il servizio segreto militare, che vanta una storia centenaria, fu quasi sempre all'altezza dei suoi compiti, riuscendo a scoprire non poche volte le spie sovietiche in Italia. Il SID (questo il suo nome nei primi anni '70) aveva scoperto che Tito, dopo aver firmato e ratificato il TNP, proseguiva indisturbato, sia pure in maniera più discreta, il suo programma di svilluppo nucleare militare. L'Italia reagì insabbiando in parlamento la ratifica del TNP, e rilanciando in grande stile sul piano militare. Il tutto, ovviamente, tenendo lontano l'occhio indiscreto dei mass-media.
Nel 1971 nasce quindi il progetto ALFA. Esso si proponeva la realizzazione di un grosso missile balistico dalle prestazioni paragonabili a quelle dei Polaris, che una decina d'anni prima gli USA si erano rifiutati di venderci. La portata di tale missile era di circa 1.600 Km. Questo vuol dire che ponendo una nave equipaggiata con tali ordigni nell'Adriatico, bastava premere un bottone per colpire la capitale di qualunque paese (URSS esclusa) dell'est Europa!
Lo sviluppo di tale missile proseguì a gonfie vele e si giunse alla sperimentazione finale nella metà degli anni '70. Tre i lanci di prova, tutti ovviamente con carica inerte nella testata, e tre furono i successi! A questo punto, una volta in possesso di armi nucleari, a parte l'URSS nessun paese avrebbe potuto minacciarci.
Ovviamente a questo punto si fecero molto forti le pressioni internazionali affinchè l'Italia abbandonasse lo sviluppo di tali armamenti, e per l'URSS fu relativamente facile convincere Tito che la prosecuzione del suo programma nucleare sarebbe stato controproducente per la Jugoslavia, perchè avrebbe determinato la nascita in Italia di un ben più temibile armamento.
Nel 1975 finalmente il nostro parlamento ratificò il TNP, ed il programma di ricerca sul nucleare militare si fermò. Anche lo sviluppo del missile Alfa fu abbandonato, non prima, però, di aver affettuato i sopracitati lanci di prova, rispettivamente tra la fine del 1975 e l'inizio del 1976, quasi a voler far capire alla Jugoslavia che l'arma era pronta ed in caso di necessità bisognava solo costruirla in grande serie e riprendere il programma di ricerca nucleare.
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Alfa - Quale Missile Balistico Per La Mm?
modello Museo tecnico Navale La Spezia ultima sala del pian terreno
la targhetta recita: «Modello di missile balistico sperimentale su di un carrello con sistema di sollevamento a due stadi. Studiato e realizzato negli anni 1961-1963 dal gruppo speciale della Marina Militare italiana»
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un missile della Marina in un aeroporto dell'AMI
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Il CAMEN
Amerigo Vaglini
Il nucleare a Pisa
Quaderno di memorie storiche sul CAMEN 1955-1985 Edizioni ETS, Pisa 2009
Pochi conoscono l'attività che per oltre un ventennio si è svolta nella pineta di S. Piero a Grado quando, dall'idea di un gruppo di insigni fisici che operavano all'interno delle strutture didattiche dell'Accademia Navale, prese corpo un impianto nucleare di ricerca che, in epoca da considerarsi ancora pionieristica, ha fatto di Pisa un centro all'avanguardia per lo studio dell'energia nucleare. Il reattore sperimentale RTS-1 Galileo Galilei ha operato per circa un ventennio, grazie all'entusiasmo e alla professionalità del personale che vi è stato destinato e di cui il libro costituisce una doverosa memoria e un riconoscimento per l'importante lavoro svolto.
Quando a San Piero a Grado c’era un reattore... Breve storia del nucleare pisano
di Amerigo Vaglini
pdf
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CENTRALI ELETTRONUCLEARI NEL MONDO
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nuova versione Wikipedia:
Classe Marconi (sottomarino)
La classe Marconi della Marina Militare Italiana doveva essere composta da due unità sottomarine d'attacco a propulsione nucleare (la prima delle quali battezzata "Guglielmo Marconi" la seconda "Enrico Toti", anche se il nome della seconda unità non fu stabilito al 100%, con proposte alternative quali "Galileo Galilei", "Alessandro Volta", "Archimede", "Leonardo da Vinci" ed "Enrico Fermi", nome, quest'ultimo, proposto anche per un rifornitore di squadra a propulsione nucleare) costruite presso Italcantieri (il nome dell'epoca di Fincantieri) alla fine degli anni cinquanta.
Il progetto
Avvalendosi anche delle esperienze compiute dagli statunitensi con il sottomarino sperimentale "Albacore", era stato progettato un sottomarino d'attacco a propulsione nucleare che avrebbe dovuto chiamarsi "Guglielmo Marconi" a cui avrebbe dovuto far seguito un'unità gemella. Il battello, simile allo "Skipjack" statunitense, avrebbe dovuto avere un dislocamento in immersione di 3 400 tonnellate e una velocità massima in immersione di 30 nodi.
La realizzazione del progetto, come già detto, necessitava della collaborazione degli Stati Uniti d'America ma il successivo rifiuto da parte di questi ultimi di proseguire la collaborazione (sulla base di una legge che vietava il trasferimento all'estero di conoscenze e tecnologie nucleari utilizzabili a fini militari) e altri impedimenti di carattere politico impedirono che l'impresa avesse seguito provocando l'abbandono del progetto.
Tra i timori degli statunitensi vi era anche quello che della tecnologia strategica venisse trasferita all'Unione Sovietica.
La costruzione
Diversamente da quanto fino ad allora noto, il 18 gennaio 2015 è comparsa una fotografia dalla Rassegna e Bollettino di Statistica del Comune di Taranto di Novembre-Dicembre 1957, che testimonia l'avvenuta impostazione, il 16 giugno 1957, del primo anello di scafo del sommergibile "Guglielmo Marconi", presso i Cantieri Navali di Taranto, quale costruzione n. 170.
Nel Luglio 1963 gli Stati Uniti rifiutano di soddisfare le richieste italiane di fornire uranio ed assistenza tecnica per realizzare il sottomarino nucleare “Guglielmo Marconi” ed il progetto viene annullato e, in sua vece, lanciato il programma per la nave da trasporto logistico "Enrico Fermi".
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disegni presso il Museo Navale di Venezia
Marconi
(la seconda unità?)
modellino nell'atrio della caserma sommergibili di La Spezia
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Dal Marconi alla bomba
versione precedente Wikipedia
La classe Guglielmo Marconi della Marina Militare Italiana doveva essere composta da due unità costruite presso Italcantieri (il nome dell'epoca di Fincantieri) alla fine degli anni '50.
Avvalendosi anche delle esperienze compiute dagli statunitensi con il sottomarino sperimentale Albacore era stato progettato un sottomarino d’attacco a propulsione nucleare che avrebbe dovuto chiamarsi Guglielmo Marconi a cui avrebbe dovuto far seguito una unità gemella. L'unità, simile allo Skipjack americano, avrebbe dovuto avere un dislocamento in immersione di 3.400 tonnellate ed una velocità massima in immersione di 30 nodi. La realizzazione del progetto come già detto necessitava della collaborazione degli Stati Uniti, ma il successivo rifiuto americano di proseguire la collaborazione, sulla base di una legge che vietava il trasferimento all'estero di conoscenze e tecnologie nucleari utilizzabili a fini militari, e l'adesione dell'Italia al trattato di non proliferazione nucleare e altri impedimenti di carattere politico, impedirono che l'impresa avesse seguito provocando l'abbandono del progetto. Tra i timori degli statunitensi vi era anche quello che tecnologia strategica venisse trasferita all'Unione Sovietica.
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SSN Guglielmo Marconi
tipo
sottomarino
classe
Marconi
costruttori
Italcantieri, ora Fincantieri spa
ordine
luglio 1959
caratteristiche generali
dislocamento
in emersione 2.300 t
e in immersione 3.400 t
lunghezza
83 m
larghezza
diametro: 9,55 m
propulsione
1 reattore nucleare CAMEN (derivato dal Westinghouse S5W) da 30 MW di potenza termica e 15.000 shp, un’elica a 5 pale
velocità
30 nodi
armamento
siluri: 6 tubi da 533 su due file orizzontali da 3 con 30 siluri
* ne “esistono tutt'oggi 2 modellini, uno presso palazzo Marina a Roma e l'altro alla caserma Scirè di la Spezia (fonte)”.
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Nella monografia sulla MMI delle EDAI dice che fu annunciato dal Ministro della Difesa nel luglio 1959. Specifiche previste: lunghezza fuori tutto 83 metri, diametro massimo scafo resistente 9,55 metri, dislocamento 2.300 tonnellate (3.400 immerso).
"La propulsione doveva essere affidata ad un impianto nucleare ad acqua pressurizzata da 30 MW di potenza termica, derivato dal modello S5W della Westinghouse e studiato dal CAMEN, che alimentava due turbine (alta e bassa pressione) accoppiate ad un diruttore. La potenza massima erogata sull'unico asse con elica a 5 pale era di 15.000 cavalli, cui doveva corrispondere una velocità massima continuativa di 30 nodi."
"La carena si presentava come un solido di riduzione (serie 58) le cui forme erano derivate dalle esperienze effettuate dall'US Navy con il battello sperimentale Albacore, e che permetteva lo sviluppo di elevate velocità in immersione. La manovrabilità sarebbe stata assicurata da superfici di governo poppiere cruciformi (timoni orizzontali e verticali), mentre i timoni orizzontali di prora erano posizionati sulla falsatorre allo scopo di migliorare le prestazioni di sensori elettroacustici."
4 paratie stagne delimitavano il locale siluri (6 tubi da 533 su due file orizzontali da 3 con 30 armi di riserva), il compartimento destinato al controllo dell'unità e ai locali di vita (su 4 livelli), il compartimento reattore, il compartimento dell'impianto di distribuzione dell'energia elettrica e del sottostante gruppo diesel-generatore di emergenza, e, infine, il compartimento del gruppo propulsore ed i due gruppi turbo-alternatori con una potenza unitaria di 1.800 kW.
Era prevista una spesa di 30 miliardi di lire del 1959, cifra che rendeva utopistico il proseguimento del progetto, date le difficoltà di bilancio delle FFAA. Oltre a ciò mancò la disponibilità americana a fornire la necessaria assistenza tecnico-logistica. Il Marconi comunque non fu l'unico progetto relativo ad unità a propulsione nucleare, quanto piuttosto quello su cui si concentrarono maggiormente le attenzioni di detrattori e fautori di una marina militare di rango mondiale.
Il punto in cui il progetto fu interrotto non lo conosco, ma credo non si andò mai oltre gli studi di massima.
Nel libro è presente la foto in b/n di un modellino (probabilmente esposto ad una fiera): appare non troppo diverso dal tipico sottomarino classe Los Angeles, quanto a forme esteriori.
(fonte)
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Sottomarino Nucleare Italiano "Marconi"
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Il programma nucleare della MMI
In quel periodo [anni sessanta] la Marina, al cui vertice era dal maggio del 1962 l'ammiraglio Ernesto Giuriati, manifestò ufficialmente il proprio interesse verso il naviglio a propulsione nucleare, con il progetto per un sottomarino d'attacco battezzato Guglielmo Marconi. L'unità, simile allo Skipjack americano, avrebbe dovuto avere un dislocamento in immersione di 3.400 tonnellate, una velocità massima in immersione di 30 nodi e una dotazione siluristica di 30 armi, il tutto per un costo totale di circa 30 miliardi. Era tuttavia palese che senza la collaborazione degli Stati Uniti il progetto non avrebbe mai potuto concretizzarsi; nonostante gli sforzi dell'allora Ministro della Difesa Giulio Andreotti, il governo di Washington rifiutò di collaborare, sulla base di una legge che vietava il trasferimento all'estero di conoscenze e tecnologie nucleari utilizzabili a fini militari; tale atteggiamento finì col provocare l'abbandono del progetto da parte italiana. Nonostante l'esito di questa vicenda, l'interesse della Marina Militare verso la realizzazione di piattaforme navali a propulsione nucleare non si affievolì, sfociando pochi anni più tardi nell'idea di un'unità da supporto logistico/rifornimento di squadra il cui progetto iniziò a prendere corpo nel dicembre del 1966, con la firma di una serie di accordi fra la MM, il CNEN e alcune industrie italiane. La nave, battezzata Enrico Fermi, avrebbe dovuto avere una lunghezza di 175 metri e un dislocamento di 18.000 tonnellate; un reattore da 80 MW avrebbe fornito la potenza per gli usi di bordo, inclusi i 22.000 hp necessari per la propulsione. Anche per tale progetto era però necessario un minimo di collaborazione da parte di nazioni già in possesso del know-how nucleare indispensabile per realizzare impianti navali di tale potenza. Le speranze coltivate in tal senso vennero nuovamente disattese, mentre il fallimento delle prime esperienze d'esercizio dei mercantili* a propulsione nucleare realizzati da alcuni paesi occidentali convinse alla fine la Marina dell'opportunità di abbandonare le proprie ambizioni nel settore.
(fonte non più disponibile, sostituita da questa anodina)
* cfr. NS Lenin e NS Savannah, Nave senza fumo.
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da Il Potere nucleare delle F.A. Italiane dal 1953 al 1992
di Vincenzo Meleca
conferenza 2 aprile 2014 presso UNUCI Milano
Il mancato potere nucleare della Marina
Nella seconda metà degli anni ‘50 Marina mise in atto varie iniziative volte sia alla sperimentazione di sistemi di propulsione nucleare, sia all’impiego di vettori d’arma strategici.
La prima iniziativa, volta anche -se non soprattutto- a colmare, avvalendosi dell'esperienza e della capacità dei docenti universitari pisani, la lacuna circa le proprie conoscenze nel settore dei sistemi di propulsione nucleare, si concretizzò con la creazione nel 1956 di un centro ricerche all'interno del comprensorio dell'Accademia Navale di Livorno: fu così che nacque il C.A.M.E.N. (Centro per le Applicazioni Militari dell'Energia Nucleare)[1] e che si sperimentò un piccolo reattore nucleare sperimentale, l’ RTS-1 “Galileo Galilei”, costruito poi a San Piero a Grado, vicino a Pisa, ove nel 1961 si trasferì il Centro.
Logica conclusione delle ricerche era comunque senz’altro quella di costruire in prospettiva unità militari a propulsione nucleare.
L’iniziativa fu seguita con attenzione dagli Stati Uniti e dall’US Navy, ma quando si trattò di passare alla fase realizzativa, con la costruzione di un sottomarino, il Guglielmo Marconi (1959) e di una grande unità di supporto logistico e di rifornimento di squadra, l’Enrico Fermi (1966), gli USA misero il veto, temendo che, da un lato, l’Italia potesse acquisire la possibilità di costruire armi nucleari e, dall’altro che, in considerazione della forte presenza in Italia di componenti politiche comuniste, vi fosse un elevatissimo rischio che le tecnologie potessero essere trasferite all’Unione Sovietica ed ai Paesi del Patto di Varsavia.
[1] Il 13 luglio 1985 il C.A.M.E.N. diventa C.R.E.S.A.M. (Centro Ricerche E Studi Applicazioni Militari) e quindi, il 28 aprile 1994, con Decreto del Ministro della Difesa, viene quindi istituito il C.I.S.A.M. (Centro Interforze Studi per le Applicazioni Militari). Fino al 1998 alle dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Difesa, il C.I.S.A.M., con Decreto Ministeriale 20 gennaio 1998, passa alle dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Marina.
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NS Enrico Fermi
tipo
unità logistica a propulsione nucleare
dimensioni
lunghezza di 170,5 metri
larghezza di 14 m
dislocamento
17.000 tonnellate a pieno carico
propulsione
reattore nucleare da 80 MW
armamento
4 cannoni Oto Melara da 127mm/54 Compatto
4 cannoni Oto Melara da 76mm/62 SR
componente di volo
hangar e ponte di volo per elicotteri SH-3D
programma
Unità logistica a propulsione studiata a fine anni 60. Il progetto non venne mai realizzato per la mancanza di accordi internazionali per la fornitura del propulsore all'Italia.
Il primo tentativo fu con gli stati uniti per ottenere l'uranio arricchito che avrebbe alimentato un reattore Westinghouse ma l'amministrazione Johnson si rifiuto perchè il programma aveva caratteristiche militari come avenne anni prima per il sottomarino Marconi.
L'uranio venne ottenuto dalla Francia e le prime 2 tonnellate per far funzionare il reattore ROSPO* presso i laboratori di Casaccia del CNEN e nel gennaio 1970 il reattore divenne critico. Ulteriori interferenze della Commissione Europea e il veto degli Stati Uniti bloccarono il progetto che sembrava ormai sicuro.
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Navi Da Crociera A Propulsione Nucleare
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* Vanno citati, tra i reattori di potenza, quelli utilizzati per la trazione. Le necessità, in questo caso, sono quelle di leggerezza e ottimo contenimento delle radiazioni: a tale scopo, la filiera PWR è generalmente usata, in quanto permette di tenere turbine e generatori in zona sicura, essendo il fluido esente da radiazioni. In realtà il circuito primario è stato realizzato anche con fluidi diversi, come nel reattore italiano R.O.S.P.O. (Reattore Organico Sperimentale Potenza Zero), realizzato come prototipo per la futura (e mai realizzata) nave Enrico Fermi a propulsione nucleare, in cui venivano utilizzati prodotti organici cerosi, simili ai comuni oli diatermici - sempre allo scopo di ridurre le dimensioni. Malgrado i molti progetti (la nave tedesca Otto Hahn, quella americana Savannah, e altre sono state effettivamente realizzate, ma senza grande successo), la propulsione nucleare navale è oggi usata solo nei sottomarini militari (e alcuni di ricerca), nelle grandi portaerei e nei rompighiaccio russi della classe Lenin. (fonte)
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Guglielmo Marconi ed Enrico Fermi
Giulio Andreotti, che dell’accordo segreto del 1972 con Washington è stato uno dei registi, resta dunque fermo sulle sue posizioni: gli americani devono restare. Ma sul contenuto di quel protocollo segreto e del come sia nato, il senatore a vita è avaro di parole. Non è infatti mai andato oltre le generiche spiegazioni di esigenze di geopolitica. Eppure, dietro la storia della nascita della base di Santo Stefano ci sarebbe anche una lunga storia tutta italiana nella quale non sarebbe secondaria l’ambizione delle alte gerarchie militari italiane, di avere un programma nucleare. Guarda caso, fu lo stesso Giulio Andreotti a ufficializzare questo sogno dei generali e degli ammiragli italiani, intervenendo al Senato nel 1959, quando era ministro della Difesa. E in quell’occasione annunciò la costruzione di un sommergibile nucleare per il quale era già pronto il nome: il Guglielmo Marconi. Ne precisò perfino le caratteristiche: dislocamento 3.400 tonnellate, lunghezza 83 metri, larghezza 9,60, autonomia 12 mila ore di moto. E cioé, circa un anno e mezzo di navigazione. Costo: 30 miliardi di lire di allora. Una cifra colossale.
C’era solo un problema da superare: convincere gli Stati Uniti a fornire l’uranio arricchito per il reattore nucleare. Falco Accame, ex presidente della Commissione Difesa della Camera, ha la memoria lunga e riucorda che, il 22 dicembre del 1962, in occasione del varo dell’incrociatore Duilio a Castellamare di Stabia, Andreotti disse: «Noi desideriamo portare avanti al più presto il progetto della costruzione di un sottomarino nucleare italiano che andrà incontro alle aspirazioni di fondo della nostra Marina e rappresenterà altresì un passo in avanti verso quel progetto tecnico a cui tutti dobbiamo cooperare».
Ma agli americani non piacevano molto le ambizioni della Marina italiana. Il primo risultato fu un cambiamento del “programma nucleare” italiano. E infatti Andreotti, il 18 settembre 1963, in Parlamento parlò dell’impegno «a relizzare un’unità di superficie a propulsione nucleare, primo passo verso la costruzione del sommergibile atomico, he resta l’obiettivo finale».
Il più fiero oppositore del programma nucleare “made in Italy” era l’ammiraglio Hyman Rickover, l’ideatore dei sommergibili atomici statunitensi. Nel 1964 Andreotti disse al Corriere della Sera che dall’originario progetto del sommergibile si era passati all’idea «di una nave civile-militare a propulsione nucleare che si sarebbe chiamata Enrico Fermi. Anche qui furono presentati i dati tecnici: 18 mila tonnellate, 174 metri di lunghezza e una velocità di 20 nodi.
Niente da fare: Rickover bocciò anche questa ipotesi. Gli italiani si rivolsero allora ai francesi, con i quali dal 1961 esisteva un progetto di collaborazione per la produzione di uranio arricchito negli impianti di Pierrelatte. Ma gli americani ci misero lo zampino e non se ne fece niente.
Nel 1966, l’allora ministro della Difesa, il socialdemocratico Tremelloni cercò diplomaticamente di esaltare soprattutto gli aspetti civili della ricerca nucleare, ma Andreotti lo gelò: «Anche il cannochiale di Galileo è nato da una commessa militare, ma l’umanità ne ha avuto benefici immensi». Il problema politico vero era dunque quello di convincere gli americani a togliere il veto. E’ in questo contesto che nacquero gli accordi per la concessione agli Usa della base della Maddalena. Quasi una sorta di “regalo” per ammorbidire certe posizioni di diffidenza. Niente da fare: gli americani in cambio passarono all’Italia alcuni sommergibili convezionali ormai in odore di dismissione. Ironia della sorte: alla fine nei nostri mari navigano sommergibili nucleari. Ma hanno la bandiera a stelle e strisce e non il tricolore.
(fonte)
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Il sogno nucleare del “mandarino” e il veto americano
Andreotti firmò l’accordo con Washington per la Maddalena in cambio di uranio per il sottomarino atomico made in Italy
di Piero Mannironi La Nuova Sardegna 5 luglio 2013
Della base della Us Navy alla Maddalena Giulio Andreotti non amava parlare. Perché si sarebbe avventurato in un terreno per lui politicamente scivoloso. Era stato infatti il regista dell'accordo bilaterale firmato a Washington nel luglio del 1972 e che, in palese violazione della Costituzione, non era stato ratificato dal Parlamento. Poi, perché dietro lo sbarco dello Zio Sam in Sardegna si nascondeva una sua personale, bruciante sconfitta. E il "divino Giulio", per sua natura discreto, non ha mai amato parlare dei suoi fallimenti.
Per raccontare questo capitolo poco conosciuto della storia della base per sommergibili nucleari americani alla Maddalena, bisogna tornare indietro nel tempo, fino al 1959. Andreotti era allora ministro della Difesa ed era rimasto affascinato dalle ambizioni delle alte gerarchie militari italiane che volevano un programma nucleare. E in quel 1959 intervenne al Senato per annunciare che condivideva e sosteneva il sogno di generali e ammiragli: la costruzione di un sommergibile nucleare per il quale era già pronto il nome: il Guglielmo Marconi. Ne precisò perfino le caratteristiche: dislocamento 3.400 tonnellate, lunghezza 83 metri, larghezza 9,60, autonomia 12mila ore di moto. E cioè, circa un anno e mezzo di navigazione. Costo: 30 miliardi di lire di allora. Una cifra colossale.
C'era però un problema da superare. Problema non da poco: convincere gli Stati Uniti a fornire l'uranio arricchito per alimentare il reattore nucleare. Falco Accame, ex presidente della Commissione Difesa della Camera, ha la memoria lunga e ricorda che, il 22 dicembre del 1962, in occasione del varo dell'incrociatore Duilio, a Castellamare di Stabia, Andreotti disse: «Noi desideriamo portare avanti al più presto il progetto della costruzione di un sottomarino nucleare italiano che andrà incontro alle aspirazioni di fondo della nostra Marina e rappresenterà altresì un passo in avanti verso quel progetto tecnico a cui tutti dobbiamo cooperare».
Ma agli americani non piacevano molto i progetti della Marina italiana. Si sviluppò una trattativa segreta che portò a un sostanziale cambiamento del "programma nucleare" italiano. E infatti Andreotti, il 18 settembre 1963, in Parlamento parlò dell'impegno "a realizzare un'unità di superficie a propulsione nucleare, primo passo verso la costruzione del sommergibile atomico, che resta l'obiettivo finale".
Il più fiero oppositore del programma nucleare "made in Italy" era l'ammiraglio statunitense Hyman Rickover, l'ideatore dei sommergibili atomici statunitensi.
Nel 1964 Andreotti disse al Corriere della Sera che dall'originario progetto del sommergibile si era passati all'idea «di una nave civile-militare a propulsione nucleare che si sarebbe chiamata Enrico Fermi». Anche qui furono presentati i dati tecnici: 18mila tonnellate, 174 metri di lunghezza e una velocità di 20 nodi.
Niente da fare: Rickover fu irremovibile e bocciò anche questa ipotesi. I militari italiani si rivolsero allora ai francesi, con i quali dal 1961 esisteva un progetto di collaborazione per la produzione di uranio arricchito per uso civile negli impianti di Pierrelatte. Ma gli americani ci misero lo zampino "avvelenando" la trattativa. E così non se ne fece niente.
Nel 1966, l'allora ministro della Difesa, il socialdemocratico Tremelloni, cercò di alleggerire le pressioni dei militari cercando diplomaticamente di esaltare soprattutto gli aspetti civili della ricerca nucleare. Ma Andreotti lo gelò con una battuta folgorante: «Anche il cannocchiale di Galileo è nato da una commessa militare, ma l'umanità ne ha avuto benefici immensi».
Il problema politico vero era dunque quello di convincere gli americani a togliere il veto. Andreotti cominciò così a tessere i fili di una diplomazia segreta con Washington, mettendo sul tavolo della trattativa la concessione alla Us Navy di una base alla Maddalena. Ironia della sorte, proprio per sommergibili nucleari. È in questo contesto che nacquero gli accordi del 1972. Quasi una sorta di "regalo" per ammorbidire le diffidenze. Ma gli americani non onorarono l'impegno e passarono all'Italia alcuni sommergibili convenzionali ormai in odore di dismissione. Alla fine nei nostri mari hanno sì navigato i sommergibili nucleari, ma con la bandiera a stelle e strisce.
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La bomba italiana…
Nel 1980, per alcuni mesi, quando serpeggiarono notizie di difficoltà nelle forze armate, l’Italia ipotizzò di costruire l’atomica. La rivelazione è dell’ex ministro della difesa, Lelio Lagorio, che ne parla nel suo recentissimo volume L’ora di Austerlitz. 1980: la svolta che mutò l’Italia che reca la prefazione di Enzo Bettiza ed è edito da Polistampa. Lagorio ricorda che il 1980 fu decisivo rispetto al tema del dispiegamento degli euromissili. «Quanto alla bomba italiana - scrive l’ex ministro - il fatto che gli euromissili avessero dato al Paese un superiore rango internazionale suggerì a qualche ambiente militare l’idea che una bomba italiana avesse stabilmente assicurato tale rango. La bomba costava poco e il nostro apparato scientifico-tecnico-industriale era in grado di produrla. Con me ne parlò espressamente il capo di stato maggiore ammiraglio Torrisi (luglio 1980). Più tardi l’idea venne risollevata dal mio sottosegretario alla difesa Ciccardini in sintonia con l’esperto Stefano Silvestri (autunno 1982). Era vero che l’Italia aveva ratificato il trattato di non proliferazione nucleare, ma da poco e dopo molte incertezze e resistenze. Un ripensamento era sempre possibile. Tanto più se lo si fosse sostenuto con una autonoma iniziativa nel Mediterraneo. In quest’area l’Italia assieme alla Francia poteva far nascere una "Piccola Nato" con i Paesi rivieraschi per dare a ciascuno un maggior senso di sicurezza. Un force de frappe nucleare italo-francese avrebbe garantito alla coalizione mediterranea un margine superiore di influenza e credibilità, senza contare che l’avvento di un nuovo robusto protagonista sullo scacchiere euro-africano avrebbe assunto un rilievo inusitato nella politica internazionale». Sin qui Lagorio. Falco Accame, all’epoca impegnato nel Psi nel settore militare - fu anche presidente della Commissione difesa - ricorda che a suo tempo ci furono «sussurri e bisbiglii circa il segretissimo progetto di costruire un’arma nucleare. Il progetto era legato alle tecnologie che in Italia era state sviluppate in alcuni centri di ricerca nucleare e soprattutto che erano state messe a punto presso il Camen, il centro di applicazioni militari per l’energia nucleare di San Piero a Grado, presso Pisa (oggi Cisam). Il Camen avrebbe dovuto provvedere alla realizzazione dei reattori nucleari per il sommergibile Marconi e per la nave mercantile Fermi». «Nel libro di Lagorio non figurano - spiega ancora Accame - alcune premesse a questo progetto ed anche all’altro di realizzazione della force de frappe. Il primo novembre 1968 la Francia ci aveva fornito l’uranio arricchito per il reattore della Casaccia, reattore che iniziò a funzionare nel ’70. Nel giugno ’71 l’ambasciatore Quaroni, lo era stato anche in Francia, in un articolo su "La revue de deux mondes" aveva parlato di possibili accordi tra Italia e Francia per un programma nucleare. Gli Usa non vollero fornirci l’uranio necessario per i progetti per la realizzazione del sommergibile e della nave nucleare. Sui programmi del Camen riferì in una intervista su un importante settimane italiano l’allora direttore, ammiraglio Avogadro di Valdengo».
(fonte)
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… e l’atomica europea
Nel 1952 era stato creato il Cnrn (Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari) e gli era stata affidata la costruzione di un primo reattore. Nel 1956, presso l’Accademia Navale di Livorno, era entrato in funzione il Camen (Centro per l’Applicazione Militare dell’Energia Nucleare). I primi risultati furono visibili negli anni seguenti. Nel 1958 cominciò la costruzione della centrale di Latina, nel dicembre 1962 il reattore divenne critico e nel maggio dell’anno successivo, come ricorda Cacace, cominciò la produzione di energia elettrica. Erano cominciati contemporaneamente i lavori per un’altra centrale, sul Garigliano, che avrebbe prodotto energia nel gennaio del 1964. Nel frattempo anche due grandi aziende private, FIAT e Montecatini, erano scese in campo. Un reattore di ricerca fu installato a Trino Vercellese e cominciò a produrre energia nel 1964. Esistevano quindi in Italia, negli anni Sessanta, le condizioni per una politica nucleare che avrebbe permesso al paese, tra l’altro, di affrontare con maggiore tranquillità e indipendenza le grandi crisi energetiche del 1973 e del 1979.
La parte militare del programma, tuttavia, era stata abbandonata lungo la strada. […] Le vicissitudini della politica italiana dopo la crisi del centro-sinistra e le elezioni del 1972 ebbero l’effetto di riaprire la discussione nel governo sulla scelta atomica della politica estera italiana. Esistevano ancora ambiziosi programmi per l’impiego civile dell’energia nucleare. E un programma civile poteva sempre, all’occorrenza, avere risvolti e implicazioni militari. Era civile o militare, ad esempio, la nave Enrico Fermi (un’unità di supporto logistico a propulsione nucleare) che la Marina militare aveva deciso di costruire sin dal dicembre del 1966? Quando il reattore della nave divenne critico e l’Italia cercò di comprare le due tonnellate di uranio arricchito necessarie al suo funzionamento, gli Stati Uniti sostennero che il progetto aveva caratteristiche militari e negarono il loro appoggio. […] Molto di ciò che accadde negli anni successivi, dai laboriosi programmi energetici adottati dopo gli shock petroliferi al fatale referendum del novembre 1987 con cui i programmi del “nucleare civile” vennero resi impossibili, è il risultato delle due grandi rinunce degli anni Cinquanta e Settanta. Dopo essere stato uno dei paesi più avanzati e intraprendenti nel campo delle ricerche nucleari, l’Italia aveva progressivamente smantellato le sue migliori istituzioni ed era uscita da uno dei settori decisivi e più promettenti della scienza moderna. Il danno è stato irreparabile. Il paese ha perduto prestigio e potere negoziale, è diventato, per le sue necessità energetiche, pericolosamente vulnerabile, non è più in grado di tenere il passo con la scienza e la tecnologia dei paesi più dinamici. Non basta. Gli argomenti che hanno giustificato queste scelte sono clamorosamente contraddetti dalla realtà. Il paese che ha rinunciato alle armi atomiche in nome della pace ospita basi nucleari straniere. Il paese che ha rinunciato al nucleare civile in nome della salute e dell’ambiente è stato esposto alle radiazioni di Cernobyl e importa energia elettrica prodotta da impianti nucleari a poche centinaia di chilometri dalle sue frontiere. La responsabilità, in ultima analisi, è di un sistema politico fragile, oscillante, più attento agli umori della pubblica opinione che agli interessi fondamentali del paese.
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Quell’ultima battaglia del sottomarino atomico
UN LIBECCIO umido soffiava a raffiche sul litorale pisano. La spiaggia era deserta. Nubi minacciose correvano verso l'interno accavallandosi nel cielo grigio di quella mattina di marzo. Due settimane all'inizio della primavera, ma sembrava pieno inverno.
Una strada rettilinea tagliava la fitta pineta. Il vento la infilava come un canale e correva dritto fino a sbattere sui volti inespressivi dei due carabinieri a guardia del cancello. La rete di recinzione era sormontata dal filo spinato. All'interno, tra pini secolari, sorgeva una piccola città di edifici a due o tre piani dalle linee pulite e razionali. Era il più grande centro di ricerca delle forze armate italiane. Sul piazzale dell'edificio della direzione erano parcheggiati ordinatamente quattro furgoncini verde militare e una Fiat 128 blu.
DALLA porta a vetri uscì un ufficiale, guardò distrattamente la sua auto, si sistemò la tesa del cappello fissando con occhi vuoti la fontana a pianta romboidale e, infine, s'incamminò lungo il viale alberato. Il vento spruzzava tutt'intorno l'acqua del getto, fino a bagnare la targa di bronzo affissa alla parete. Uno scudo medioevale con al centro un atomo stilizzato. Sulla corona la scritta: Camen, Centro applicazioni militari energia nucleare. L'élite delle forze armate, in quell'epoca cupa in cui l'apocalisse nucleare sembrava imminente e l'Italia si trovava sulla linea del fronte, tra Nato e Patto di Varsavia. In quel centro di ricerca il simulatore di onda d'urto, un cannone lungo dieci metri con una bocca di settanta centimetri, testava su mezzi e materiali gli effetti di un'eventuale esplosione nucleare. Uno spiazzo, detto poligono, era attrezzato per simulare il fall-out radioattivo sui carri armati. Il laboratorio di radiopatologia compiva esperimenti su cavie e primati per valutare gli effetti sanitari di una guerra nucleare. Ma i sogni, o forse gli incubi, degli uomini del Camen erano stati molto più ambiziosi.
Nell'archivio del comandante, presidiato da due carabinieri con l'ordine di perquisire chiunque entrasseo uscisse, erano conservati i disegni e gli schemi definitivi del missile balistico Alfa. Milleseicento chilometri di gittata, l'equivalente italiano del missile Polaris della Marina degli Stati Uniti. E non solo. In uno schedario chiuso con doppie chiavi e protetto da sigilli c'era la ragione stessa della fondazione di quel centro alla fine degli anni Cinquanta, oltre vent'anni prima: il progetto del sottomarino a propulsione nucleare S-521 "Guglielmo Marconi". Ottantatré metri di lunghezza, dieci metri di diametro, tremilaquattrocento tonnellate di dislocamento, sei tubi di lancio, dodicimila ore di autonomia in immersione.
L'arma definitiva di quella strana guerra, mai dichiarata, tra blocchi contrapposti iniziata trent'anni prima. Qualunque cosa potesse succedere alla madrepatria, un sommergibile in immersione, armato di missili balistici a testata nucleare, sarebbe stato invulnerabile e in grado di scatenare la più spaventosa rappresaglia. «La costruzione del sommergibile atomico resta l'obiettivo finale a cui tutti dobbiamo cooperare» aveva dichiarato nel settembre del 1963 il ministro della Difesa Giulio Andreotti alla Camera dei deputati.
E il primo passo verso un sommergibile nucleare è costruire un reattore. Uno piccolo e semplice, perché non deve certo illuminare una città.
Possibilmente a uranio altamente arricchito, lo stesso usato per la fabbricazione delle testate. Un Rts-1 della statunitense Babcok&Wilcox, ad esempio. Ufficialmente un reattore di ricerca, non un propulsore per sommergibili, ma con le caratteristiche giuste per diventarlo, un giorno. Un reattore civile e quindi esportabile in Italia nello spirito della Conferenza di Ginevra del 1955. Per questo nel 1958 il ministero della Difesa lo aveva fatto acquistare dal Comitato nazionale per le ricerche nucleari. E per questo fu costruito in pochi mesi in quella bella pineta sul litorale pisano.
Il tozzo cilindro dell'edificio di contenimento spuntava appena sopra le cime dei pini. Sul fianco svettava il camino, l'unica uscita dell'aria contenuta all'interno. Tra le nubi si aprì un varco e il sole fioco illuminò la facciata a mattoncini blu del basamento quadrato. La pioggerella discontinua minacciava tempesta e bagnava la tesa del cappello e i fregi sulle spalline dell'ufficiale che camminava solitario lungo il viale.
Era solo capitano di vascello, ma era il più alto in grado del centro. I suoi predecessori erano stati tutti generali o ammiragli. Il personale aveva afferrato immediatamente il senso di quell'avvicendamento e non l'aveva presa bene. Le guardie sotto la tettoia d'ingresso scattarono sull'attenti quando lo videro attraversare il piazzale. L'ufficiale, scuro in volto, passò senza degnarli.
All'interno si lasciò ispezionare con il contatore Geiger, le norme di sicurezza lo imponevano anche in entrata. Salì la scala metallica, attraversando i piani come i ponti di una nave fino al vestibolo del vano piscina. La porta si richiuse alle sue spalle e rimase per alcuni secondi nella camera di decompressione. Nelle orecchie sentì un lieve fastidio finché la porta successiva si aprì con un sibilo. La sala vasche gli ricordava la cupola di una cattedrale. Le pareti azzurre circolari, il tetto bombato e tutt'intorno il ballatoio del corridoio visitatori. Al centro la piscina. Ventidue metri di lunghezza e nove di profondità. Poteva contenere un palazzo di tre piani.
Una delle due estremità si allargava in una forma arrotondata e sopra poggiava immobile il carroponte. Sul corrimano un salvagente con la scritta "Galileo Galilei", come se fosse una nave e qualcuno potesse veramente cadere in acqua. L'ufficiale non ne aveva mai colto l'involontaria ironia.
Percorse il pavimento di linoleum rosso fino alla cabina di comando, una struttura di metallo e vetro che si affacciava sulla piscina. Il capoturno, in camice bianco, salutò l'ufficiale superiore. Avrà avuto meno di trent'anni. Capelli corti sulla nuca e scriminatura come tagliata con il bisturi.
«Siamo pronti» fece il giovane uomo.
Due pareti erano coperte di strumentazione. Quadranti a lancette, spie luminose, pulsanti, interruttori, manopole.
Alla consolle di comando era seduto un tecnico. Un altro fissava un rullo di carta che scorreva dietro un vetro. Il pennino tracciava una riga nera rettilinea. «Procedete pure» ordinò l'ufficiale con voce un po' troppo squillante per risultare autoritaria. Nel vano piscine si accese un lampeggiante. Il tecnico alla consolle azionò un interruttore. Una lancetta cominciò a ruotare lentamente. Il pennino sul rullo si mosse.
«Stiamo estraendo le barre di controllo» spiegò il capoturno, pentendosi subito di aver aperto bocca e di aver usato quel tono. Non si spiega a un superiore, tutt'al più si informa. Ma il tecnico sapeva bene perché avevano mandato lì quell'ufficiale, un militare di carriera senza nessuna competenza in campo nucleare.
Il capitano di vascello si avvicinò al vetro che dava sulla piscina. Tutta quella tecnologia lo metteva in soggezione.
Lui preferiva il mare, per questo era diventato ufficiale di marina. Sul pelo dell'acqua vide alzarsi le barre. Una spia luminosa sulla consolle si rifletté sul vetro.
«Reattore critico» dichiarò il tecnico che fissava il rullo. La voce tradiva una nota di emozione. Era iniziata la fissione dell'uranio contenuto nelle barre di combustibile dentro la piscina. Una luminescenza azzurrognola rischiarava l'acqua. L'effetto Cherenkov. Una luce che esiste solo dentro un reattore nucleare. Poche persone al mondo l'hanno vista, perché pochissimi sono i reattori a piscina aperta come l'Rts-1.
Ma l'ufficiale non condivideva l'entusiasmo dei suoi tecnici per quella visione. In fondo, per lui, era solo una luce blu.
«Duecento chilowatt in crescita» avvertì il tecnico alla consolle mentre muoveva rapido manopole e interruttori.
Sudava. Il pennino sul rullo sobbalzava. Sulla parete dietro si accesero le luci delle pompe. L'altro tecnico ruotò un paio di interruttori. L'acqua scaldata dalla fissione veniva ora estratta e portata allo scambiatore a fasci tubieri all'esterno dell'edificio.
"Cinque megawatt» dichiarò infine il tecnico. Era la massima potenza. Un rombo sordo proveniva dalla stessa struttura dell'edificio, come se una forza primordiale nelle viscere della Terra lo scuotesse.
Dallo scambiatore a un centinaio di metri dalla cupola si alzava una nube di vapore, quasi indistinguibile dal cielo plumbeo che la sovrastava.
Per ventiquattro lunghi minuti il reattore ruggì come una bestia ferita.
«Giù le barre!» ordinò infine il capoturno, con lo stesso tono con cui avrebbe ordinato di fare fuoco a un plotone di esecuzione. Aveva gli occhi bagnati di lacrime.
«Spento» fece il tecnico alla console dopo pochi secondi.
L'orologio a muro segnava le undici e nove minuti. Era il 7 marzo 1980. L'ultima accensione del reattore. La missione del tenente di vascello era chiudere le attività del centro.
Nessun'altra sperimentazione, nessun ulteriore studio o sviluppo. L'Italia aveva firmato il trattato di non proliferazione. Si era impegnata a cessare ogni ricerca nucleare in campo militare. Non ci sarebbe stato più alcun missile balistico italiano, tanto meno un sommergibile nucleare. In caso di conflitto l'Italia sarebbe stata solo un campo di battaglia.
MASSIMILIANO PIERACCINI Repubblica 24 luglio 2011
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missile Alfa
Il servizio segreto militare, che vanta una storia centenaria, fu quasi sempre all'altezza dei suoi compiti, riuscendo a scoprire non poche volte le spie sovietiche in Italia. Il SID (questo il suo nome nei primi anni '70) aveva scoperto che Tito, dopo aver firmato e ratificato il TNP, proseguiva indisturbato, sia pure in maniera più discreta, il suo programma di svilluppo nucleare militare. L'Italia reagì insabbiando in parlamento la ratifica del TNP, e rilanciando in grande stile sul piano militare. Il tutto, ovviamente, tenendo lontano l'occhio indiscreto dei mass-media.
Nel 1971 nasce quindi il progetto ALFA. Esso si proponeva la realizzazione di un grosso missile balistico dalle prestazioni paragonabili a quelle dei Polaris, che una decina d'anni prima gli USA si erano rifiutati di venderci. La portata di tale missile era di circa 1.600 Km. Questo vuol dire che ponendo una nave equipaggiata con tali ordigni nell'Adriatico, bastava premere un bottone per colpire la capitale di qualunque paese (URSS esclusa) dell'est Europa!
Lo sviluppo di tale missile proseguì a gonfie vele e si giunse alla sperimentazione finale nella metà degli anni '70. Tre i lanci di prova, tutti ovviamente con carica inerte nella testata, e tre furono i successi! A questo punto, una volta in possesso di armi nucleari, a parte l'URSS nessun paese avrebbe potuto minacciarci.
Ovviamente a questo punto si fecero molto forti le pressioni internazionali affinchè l'Italia abbandonasse lo sviluppo di tali armamenti, e per l'URSS fu relativamente facile convincere Tito che la prosecuzione del suo programma nucleare sarebbe stato controproducente per la Jugoslavia, perchè avrebbe determinato la nascita in Italia di un ben più temibile armamento.
Nel 1975 finalmente il nostro parlamento ratificò il TNP, ed il programma di ricerca sul nucleare militare si fermò. Anche lo sviluppo del missile Alfa fu abbandonato, non prima, però, di aver affettuato i sopracitati lanci di prova, rispettivamente tra la fine del 1975 e l'inizio del 1976, quasi a voler far capire alla Jugoslavia che l'arma era pronta ed in caso di necessità bisognava solo costruirla in grande serie e riprendere il programma di ricerca nucleare.
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Alfa - Quale Missile Balistico Per La Mm?
modello Museo tecnico Navale La Spezia ultima sala del pian terreno
la targhetta recita: «Modello di missile balistico sperimentale su di un carrello con sistema di sollevamento a due stadi. Studiato e realizzato negli anni 1961-1963 dal gruppo speciale della Marina Militare italiana»
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un missile della Marina in un aeroporto dell'AMI
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Il CAMEN
Amerigo Vaglini
Il nucleare a Pisa
Quaderno di memorie storiche sul CAMEN 1955-1985 Edizioni ETS, Pisa 2009
Pochi conoscono l'attività che per oltre un ventennio si è svolta nella pineta di S. Piero a Grado quando, dall'idea di un gruppo di insigni fisici che operavano all'interno delle strutture didattiche dell'Accademia Navale, prese corpo un impianto nucleare di ricerca che, in epoca da considerarsi ancora pionieristica, ha fatto di Pisa un centro all'avanguardia per lo studio dell'energia nucleare. Il reattore sperimentale RTS-1 Galileo Galilei ha operato per circa un ventennio, grazie all'entusiasmo e alla professionalità del personale che vi è stato destinato e di cui il libro costituisce una doverosa memoria e un riconoscimento per l'importante lavoro svolto.
Quando a San Piero a Grado c’era un reattore... Breve storia del nucleare pisano
di Amerigo Vaglini
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CENTRALI ELETTRONUCLEARI NEL MONDO