giovedì 14 maggio 2009

1927 – RN Giuseppe Miraglia














RN Giuseppe Miraglia

tipo
Nave appoggio idrovolanti
cantiere
Regio Arsenale della Spezia
impostazione
5 marzo 1921
varo
20 dicembre 1923
entrata in servizio
1 novembre 1927
radiazione
15 luglio 1950
destino finale
smantellata nel 1950
caratteristiche generali dislocamento
scarico: 4.507 t
normale: 5.400 t
pieno carico: 5.913 t
lunghezza
121,22 m
larghezza
14,99 m
pescaggio
5,82 m
ponte di volo
lunghezza 211,6 m per 25,2 m
altezza sul mare: 23 metri
propulsione
8 caldaie Yarrow a tubi d'acqua, 2 gruppi di turbine a vapore con riduttore tipo Parsons, 2 eliche a tre pale, Potenza: 16.700 CV
velocità
21 nodi
equipaggio
16 ufficiali
40 sottufficiali
240 sottocapi e comuni
equipaggiamento armamento
artiglieria:
4 pezzi da 102/35 mm.
12 mitragliere da 13,2 mm.
2 catapulte "Gagnotto" a prora e poppa
2 aviorimesse per 6 e 5 aerei ad ali ripiegate (tot. 11 idrovolanti)
2 depositi per 3 aerei smontati ciascuno
totale aerei: 17 idrovolanti Macchi M.18AR DEL 1930
corazzatura
70 mm (verticale)
80 mm (orizzontaleorr)
mezzi aerei
17 idrovolanti IMAM Ro.43
(fonte)
La nave appoggio idrovolanti Giuseppe Miraglia venne costruita come nave trasporto per le Ferrovie dello Stato con il nome di Città di Messina, ma dopo essere stata varata il 20 dicembre 1923 venne invece deciso di incorporarla nella Regia Marina per fornire supporto logistico agli idrovolanti in dotazione alle navi da battaglia ed agli incrociatori. Il suo compito era quello di nave officina per l'assistenza e riparazione degli aerei e nel contempo per trasportarli nelle squadre navali.
I lavori di trasformazione iniziarono il 24 gennaio 1925. L'unità era dotata di due hangar, uno a poppa che poteva contenere sei idrovolanti Macchi M.18AR ad ali ripiegabili ed uno a prua che poteva ricevere cinque velivoli dello stesso tipo. Compresi quelli in coperta, la nave poteva trasportarne, a seconda dei modelli, circa venti aerei, per il cui lancio erano state installate due catapulte ed era anche in grado di posare in mare e recuperare gli idrovolanti. Per la posa in mare dei velivoli vi era installata, in corrispondenza della mezzeria di ogni apertura laterale, sotto il cielo dell’hangar, una rotaia, sostenuta da una gru a bandiera che si prolungava per nove metri fuoribordo, mentre per il recupero degli idrovolanti quando la nave era in navigazione veniva utilizzato un telone, che sarebbe stato rimosso nel 1937 in seguito all'entrata in servizio degli idrovolanti IMAM Ro.43. La nave venne usata anche per il trasporto di personale e per quello di materiali. Dopo essere stata utilizzata durante la guerra d'Etiopia per il trasporto velivoli per l’Africa Orientale, venne successivamente impiegata durante la guerra civile spagnola.
Durante il secondo conflitto mondiale dopo essere uscita illesa dalla notte di Taranto venne impiegata nel Mediterraneo.
In seguito alle vicende armistiziali da Venezia si consegnò agli alleati con il resto della flotta a Malta, dove venne impiegata come base appoggio per i sommergibilisti italiani, per essere poi utilizzata, al termine del conflitto, per il rimpatrio dei prigionieri italiani ed ormeggiata a Taranto, dove sarebbe stata utilizzata, ancora come nave-caserma per gli equipaggi di motosiluranti e come nave-officina, prima di essere disarmata e definitivamente radiata il 15 luglio 1950.
(fonte)















In precedenza nella Regia Marina lo stesso ruolo era stato svolto prima in maniera molto limitata dall'incrociatore protetto Elba adattato a nave appoggio, e sopratutto dalla nave Europa, che costruita nei cantieri di Glasgow, nel 1895, ed in servizio come mercantile con il nome di Quarto, venne acquistata dalla Regia Marina ed adattata in nave appoggio idrovolanti nel 1915. La nave, lunga 123,2m, larga 14,1m e con un pescaggio di 6m, aveva un apparato motore dalla potenza di 3000HP che permetteva una velocità di 12 nodi ed aveva una stazza di 8800 tonnellate. Dopo i lavori di trasformazione effettuati presso l'Arsenale di La Spezia venne armata con due cannoni da 76mm e poteva ospitare otto velivoli. Al termine della prima guerra mondiale venne messa in disarmo e radiata nel 1920.
(fonte)

RN Elba

L'incrociatore corazzato Elba fu un'unità della Regia Marina che ha operato dagli ultimi anni dell'ottocento agli inizi degli anni venti partecipando al primo conflitto mondiale. La nave progettata dall'Ingegnere Edoardo Masdea faceva parte della Classe Regioni con le unità gemelle Calabria, Lombardia, Umbria, Etruria, Liguria e Puglia.
Le navi di questa classe in origine vennero dotate di due alberi velici, trasformati in alberi militari attorno al 1905. Inizialmente queste unità ebbero poco successo avendo una protezione carente ed essendo poco veloci, tuttavia in condizioni di tempo difficili e con mare grosso dimostrarono le loro qualità con una buona stabilità, che favoriva la precisione nei tiri d'artiglieria, la galleggiabilità e l'ottima manovrabilità con tutti i tempi. Il loro armamento venne più volte modificato nel 1905, nel 1914 e nel 1915.
L'incrociatore Elba venne costruito nellArsenale di Castellammare di Stabia dove il suo scafo venne impostato sugli scali il 22 settembre 1890. Classificato Ariete Torpediniera al momento del varo , avvenuto il 12 agosto 1893 venne classificato incrociatore protetto e dopo essere stato completato nel 1894 entrò in servizio il 27 febbraio 1896.
Agli inizi del novecento partecipò alla spedizione in Cina nell'ambito della Forza Multinazionale che si era formata in seguito alla rivolta dei Boxer. Prese poi parte ai primi esperimenti di aviazione navale e dopo essere stato trasformato in posamine nel periodo 1914-15, nell'imminenza del primo conflitto mondiale venne trasformato in appoggio idrovolanti, con la rimozione dell’intero armamento principale e la costruzione di ricoveri, per alloggiare 3/4 idrovolanti del tipo Curtiss "Flying Boat", da calare in mare per il decollo e recuperare al termine del volo tramite dei verricelli. Nel giugno del 1913, con Decreto Ministeriale era stato infatti costituito ufficialmente il "Servizio Aeronautico della Regia Marina" e il successivo 20 luglio era stato nominato Capo di Stato Maggiore della Regia Marina, l'ammiraglio Paolo Thaon di Revel, sostenitore dell'Aviazione Navale, che diede un notevole impulso allo sviluppo e al potenziamento del settore. Nell'imminenza del conflitto, con il mezzo aereo ritenuto indispensabile per una più completa condotta delle operazioni in mare venne a profilarsi l'esigenza di disporre di unità navali appositamente attrezzate al fine di usufruire al meglio delle potenzialità dei velivoli e per questo motivo la Regia Marina decise di trasformare l'"Elba" in nave appoggio idrovolanti. A questa unità ne venne affiancata un'altra, la nave mercantile Quarto, che venne acquistata della Regia Marina e ribattezzata Europa, i cui lavori di trasformazione vennero realizzati in pochi mesi all'Arsenale di La Spezia.
Al termine del conflitto l'incrociatore "Elba" venne ritirato dal servizio e radiato il 15 maggio 1921 per essere poi venduto per demolizione il 22 marzo 1923.
(fonte)

RN Europa

La prima unità italiana classificabile in qualche modo nella categoria delle portaerei era entrata in servizio già durante la prima guerra mondiale: si trattava della nave appoggio idrovolanti Europa, frutto della conversione di una preesistente nave mercantile, la nave Quarto, acquistata da un armatore tedesco nel 1915, per dotare la Regia di una unità in grado di assicurare alla flotta una maggiore profondità e rapidità di esplorazione, data appunto dagli idrovolanti, rispetto a quello che poteva fare una qualunque unità navale. Si trattava della conversione di un mercantile realizzata mediante due strutture a prora ed a poppa che fungevano da aviorimesse per un numero massimo di otto idrovolanti; la nave era però sprovvista di attrezzature per il lancio degli aerei, che dovevano quindi essere posati in acqua per poter decollare. La denominazione ufficiale dell'unità era quella di "Nave trasporto idrovolanti e appoggio sommergibili". (fonte)

Una nave appoggio idrovolanti è una nave dotata di installazioni per operare idrovolanti. Questo tipo di navi furono il primo tipo di portaerei utilizzato e fecero la loro comparsa poco prima dell'inizio della prima guerra mondiale. La prima nave appoggio idrovolanti fu la Le Foudre della Marina Francese nel 1911, successivamente all'invenzione dell'idrovolante nel 1910 (il francese Le Canard). Le Foudre trasportava gli idrovolanti in un hangar sul ponte principale dal quale venivano calati in acqua con una gru. Venne ulteriormente modificata nel novembre 1913 con un ponte piatto da 10 metri per lanciare i suoi propri idrovolanti. (fonte)

martedì 28 aprile 2009

1941 – RN Aquila



RN Aquila
La Aquila fu una portaerei della Regia Marina durante la seconda guerra mondiale, ottenuta riutilizzando e modificando lo scafo del transatlantico Roma. È stata la prima portaerei italiana dotata di ponte di volo ad essere stata costruita, ma non entrò mai in servizio attivo.
Nonostante il governo fascista avesse sempre osteggiato la costruzione di portaerei, in seguito al disastro di Gaudo e Matapan (dove la marina italiana perse in un sol colpo tre incrociatori pesanti) che rese chiaro l'apporto significativo che un uso coordinato dell'aeronautica poteva dare, venne deciso urgentemente di dotare di una portaerei la Regia Marina.
Tra i possibili candidati alla trasformazione in portaerei venne scelto il transatlantico Roma, in quanto pur essendo una nave relativamente recente (aveva 15 anni di età) abbisognava di lavori di restaurazione e dell'installazione di un nuovo impianto motore e sarebbe stata quindi ceduta abbastanza facilmente dalla società armatrice.
La trasformazione del transatlantico "Roma" in portaerei venne ordinata nel luglio del 1941.
Il progetto originario di modifica, sviluppato dal generale del Genio navale Gustavo Bozzoni, non ebbe seguito in quanto presentava un grosso limite operativo che consisteva nel fatto che gli aerei, una volta lanciati, non sarebbero stati recuperati, vista la difficoltà della manovra di atterraggio ed il lungo addestramento necessario ai piloti per effettuarla.
La realizzazione finale ha visto la protezione passiva realizzata mediante 18 paratie stagne, di cui 11 doppie, da controcarene esterne e da doppifondi riempiti di calcestruzzo armato sino alla linea di galleggiamento. L'applicazione di controcarene avrebbe permesso alla nave sia di raggiungere velocità elevate sia di migliorare la protezione subacquea nei confronti dei siluri. Le contromisure passive videro anche una corazzatura ai depositi di carburante e di munizioni, mentre il riempimento delle controcarene con uno spessore di cemento armato, previsto anche nel progetto Bozzoni e che aveva dato ottime prestazioni alle prove di scoppio in vasca, richiedeva poco acciaio per la sua realizzazione rispetto ad una corazzatura classica. Lo scafo, controcarene comprese, venne allungato di circa 5 metri.
L'apparato motore fu realizzato utilizzando 2 apparati originariamente destinati a incrociatori leggeri della classe Capitani Romani, diventati disponibili dopo la cancellazione della costruzione di quattro delle dodici previste, con 8 caldaie e 4 turbine. La potenza di ciascuno dei gruppi caldaie/turbina venne limitata da 50.000 a 37.500 CV, per un totale di circa 150.000 CV, consentendo alla nave di raggiungere una velocità massima di circa 30 nodi.
Il ponte di volo, continuo da prora a poppa e sostenuto da apposite strutture, aveva una voluminosa isola a più piani sul lato di dritta, a circa metà nave, con la plancia di comando e numerose piazzole per le armi antiaeree. Ai lati dello scafo erano presenti simili piazzole per l'armamento antisilurante.
L'Aquila era equipaggiata con due catapulte Demag ad aria compressa di produzione tedesca e con due elevatori. L'hangar era divisibile in 4 sezioni da paratie tagliafuoco. Avrebbe potuto imbarcare 51 aerei da caccia tipo Reggiane Re.2001 di cui 10 sul ponte di volo, 26 nell'hangar e i rimanenti sospesi al cielo dell'hangar stesso (espediente ingegnoso inventato per poter aumentare la capacità di carico della nave). Era stata prevista anche la costruzione di una versione del Re.2001 ad ali ripiegabili che avrebbe potuto portare a 66 caccia la capacità di imbarco.
L'armamento, destinato principalmente alla difesa contraerea, era costituito da cannoni singoli (8 pezzi da 135/45 mm e dodici da 65/44 mm) installati a prua, poppa e su mensole ai lati dei ponti di volo e da 22 impianti sestupli di mitragliere da 20/65mm installati ai lati del ponte di volo e davanti e dietro l'isola.
Pur essendo stata danneggiata nel novembre 1942, mentre era ancora in allestimento, alla data dell'armistizio dell'8 settembre 1943, la nave era già completata al 90%, praticamente pronta per i collaudi e le prove in mare ed aveva già effettuato le prime prove statiche dell'apparato motore, ma non fece in tempo ad entrare in servizio attivo. Il 9 settembre venne sabotata ed abbandonata dall'equipaggio, e cadde nelle mani dei tedeschi che se ne impadronirono affidandola alle autorità della Repubblica Sociale Italiana, che ne tentarono il completamento, senza successo, a causa dei continui bombardamenti alleati, come quello nel porto di Genova del 16 giugno 1944 in cui la nave subì gravi danni. I tedeschi cominciarono un parziale smantellamento per riciclarne il ferro ed infine il 19 aprile 1945 la nave venne attaccata da mezzi d'assalto subacquei italiani di Mariassalto facenti parte delle forze cobelligeranti italiane del Regno del Sud, per impedire che i tedeschi ne utilizzassero il grosso scafo per affondarla e bloccare l'imboccatura del porto di Genova. Alla fine della guerra venne ritrovata ancora a galla, semisommersa il 24 aprile 1945 e posta a metà del porto in un estremo tentativo di bloccare il passaggio fra il bacino della Lanterna e gli scali occidentali. Rimorchiata dagli inglesi alla Calata Bettolo, vi rimase qualche anno, finché non fu rimorchiata nel 1949 a La Spezia, dove venne demolita nel 1952.
(fonte)



RN Sparviero
Nel 1936 fu approntato un progetto per trasformare in portaerei ausiliaria la motonave passeggeri Augustus di 30.418 tonnellate di stazza. L'idea fu abbandonata e poi ripresa nel 1942.
L'Augustus era stata fino al 1936, la più grande motonave del mondo. All'epoca nessuna motonave aveva una potenza di 28000 Cv che l'Augustus, raggiungeva grazie ai 4 motori Diesel Savoja M.A.N. a 2 tempi doppio effetto.
Ribattezzata "Falco" e poi "Sparviero", la nave passeggeri Augustus avrebbe dovuto subire grosse modifiche con la totale demolizione della sovrastruttura, l'installazione delle controcarene e la costruzione del ponte di volo.
Dalla trasformazione della notonave "Augustus" sarebbe dovuto scaturire una portaerei di scorta. La portaerei avrebbe dovuto essere dotata di un solo hangar con 2 ascensori e chiuso al di sopra con un ponte di volo che terminava 45 metri prima della prora. La dotazione aerea sarebbe stata di 34 caccia oppure di 16 caccia più 9 bombardieri/siluranti.
L'apparato motore sarebbe rimasto quello originale, in grado di spingere l'unità ad una velocità di circa 20 nodi, mentre lo scafo sarebbe stato con un ponte di volo senza isola.
I lavori di trasformazione iniziarono nel settembre del 1942 nei Cantieri Ansaldo di Genova.
Lo scafo all'armistizio verrà catturato dai tedeschi e fatto affondare per bloccare l'accesso al porto di Genova.
Il relitto verrà recuperato nel dopoguerra e poi demolito nel 1951.
(fonte)

Le portaerei italiane dalla I alla II guerra mondiale
L'esperienza della Prima Guerra Mondiale, tuttavia, non fu determinante nel convincere gli alti gradi della Regia Marina della utilità e convenienza di inserire una o più portaerei nella composizione della flotta. Su questa impostazione, che si sarebbe trascinata fino alla seconda guerra mondiale, influirono svariati fattori:
l'esperienza bellica italiana, dal punto di vista navale, era limitata sostanzialmente al mare Adriatico che, con le sue distanze molto ridotte, non faceva sentire più di tanto la necessità di unità navali del tipo portaerei;
la costituzione, nel 1922, della Regia Aeronautica come arma autonoma, effettuata dal regime fascista, non aiutò sicuramente ad affrontare serenamente il problema, anche perché col tempo si sviluppò un'accesa rivalità fra le due armi che andò pesantemente ad influire sul discorso aviazione navale, dove invece sarebbe stata necessaria una fattiva e profonda collaborazione;
la sostanziale contrarietà, manifestata dal regime, verso la costruzione di unità portaerei (nonostante il fiorire di studi e progetti, che vedremo in seguito) dovuta da un lato alla simpatia manifestata dal regime stesso verso l'aeronautica, arma "fascista" per eccellenza, a discapito della marina; dall'altro ad una considerazione di tipo teorico, e cioè che la conformazione geografica dell'Italia ne faceva una sorta di "portaerei naturale" protesa al centro del Mediterraneo, il che rendeva inutile la costruzione di unità navali del tipo portaerei.
Quest'ultima considerazione merita qualche approfondimento perché, a determinate condizioni, poteva anche essere accettata. La posizione geografica della penisola italiana è effettivamente molto centrale nel Mediterraneo e tale da permetterle di controllare questo mare e, se necessario, tagliarlo in due. Ciò in quanto dagli aeroporti della Sardegna e della Sicilia si controllano agevolmente le aree limitrofe del Mediterraneo Occidentale ed i relativi accessi al Canale di Sicilia, che è la strozzatura che divide in due il Mediterraneo; lo stesso discorso può essere fatto, relativamente alla parte orientale del bacino con gli aeroporti della Puglia e, ancora, della Sicilia. Se si considera la presenza delle colonie italiane del Dodecanneso, che contribuivano pesantemente al controllo ed al dominio dell'area del mare Egeo, si può constatare che questa affermazione era tutt'altro che campata per aria, almeno dal punto di vista geografico.
Il discorso naturalmente, fatto così, è un discorso fatto solo per metà: infatti per poter mettere in pratica questo enunciato era necessario che fosse soddisfatta una serie di prerequisiti che, come vedremo, era ben lungi dall'essere tale allo scoppio del conflitto. Anzitutto era necessario disporre di aerei di caratteristiche tecniche adeguate alle operazioni sul mare: si tratta di lunghe missioni di ricognizione, pattugliamento, caccia antisommergibili, oltre a quelle "classiche" di attacco aeronavale. Questo voleva dire sostanzialmente la realizzazione di bombardieri, aerosiluranti, ricognitori a grande autonomia, idrovolanti con adeguate caratteristiche di autonomia e armamento (difensivo soprattutto, ma non solo), aerei da caccia in grado di svolgere lunghe missioni di scorta sul mare. In sostanza si trattava di realizzare una serie di velivoli in cui una caratteristica fondamentale risaltava sulle altre: il raggio d'azione che doveva essere il più esteso possibile, per allargare al massimo l'area controllabile. Tutto questo non fu fatto e ci si limitò ad adattare all'impiego sul mare i migliori aerei disponibili al momento (il che non vuol dire che questi adattamenti non fossero soddisfacenti; si veda l'SM-79 utilizzato come aerosilurante, ma sempre di adattamenti si trattava).
Altro requisito indispensabile era la costituzione di un comando interforze fra Marina ed Aeronautica che consentisse, tramite la definizione di procedure operative e sistemi di comunicazione comuni, un rapido passaggio di informazioni e di ordini, tale per cui non passasse, ad esempio, troppo tempo (e qualche ora potrebbe già essere troppo tempo, in determinate situazioni) fra una richiesta di supporto aereo inviata dal Comandante in mare e l'arrivo sul posto dei reparti aerei inviati in aiuto. Questo avrebbe permesso agli aerei, entro certi limiti dati dalla distanza della flotta dalle basi aeree e dalla velocità degli aerei stessi, di intervenire tempestivamente ed efficacemente ogni volta che ci fosse stata una richiesta da parte della flotta. Anche questo aspetto venne completamente trascurato: qualunque cosa in grado di volare divenne di fatto competenza esclusiva della Regia Aeronautica, con l'unica eccezione degli idroricognitori IMAM Ro-43 imbarcati su corazzate e incrociatori (il cui equipaggio era comunque misto, composto com'era da pilota dell'Aeronautica ed osservatore della Marina): naturalmente questi piccoli aerei, idrovolanti monomotori biposto, lenti, pressoché indifesi e con un'autonomia inadeguata ad una ricognizione di tipo "strategico" non potevano assolutamente sostituire un'aviazione navale ben addestrata e coordinata con la flotta, men che meno la presenza nella flotta stessa di una o più portaerei. Le conseguenze si sarebbero viste già alla battaglia di Punta Stilo dove il centinaio di bombardieri inviati sul luogo della battaglia arrivarono in forte ritardo ed alcuni di loro attaccarono addirittura le navi italiane (errore peraltro giustificato dall'intenso fuoco di sbarramento antiaereo sviluppato dalle navi, che comunque non ebbe effetto alcuno).
Per finire tutto ciò non doveva consistere in qualche squadriglia di aerei dislocati qua e la; doveva essere costituita una robusta squadra aerea, presumibilmente con alcune centinaia di apparecchi dei vari tipi, di modo da poter essere distribuita sui vari scacchieri d'impiego con forze comunque adeguate ad un impiego di massa.
Alla resa dei conti, nulla di tutto ciò fu fatto: la marina dovette arrangiarsi senza le portaerei e senza una squadra aerea addestrata a sua disposizione. Si vide infatti, durante tutto il conflitto, che le occasioni in cui il coordinamento fra forze navali ed aeree funzionò decentemente bene si potevano contare sulle dita di una mano. Ma torniamo alle portaerei.
Nonostante la evidente contrarietà del regime alla costruzione di portaerei, la marina fu prodiga di studi e progetti per tutto il periodo antecedente il conflitto; in particolare ne furono prodotti tre che meritano un cenno per la completezza dello studio effettuato: questi progetti furono preparati nel 1925 (progetto Rota), nel 1928 e nel 1932, quest'ultimo riproposto, con poche varianti, nel 1936.
In realtà già nel 1921 il Tenente di Vascello G. Fioravanzo aveva presentato il progetto di una unità ibrida, da lui chiamata "incrociatore antiaereo" e che nasceva dall'idea di riunire su una sola piattaforma navale una potente batteria di cannoni contraerei ed una squadriglia di aerei da caccia. La nave, di dimensioni grosso modo simili a quelle dell'inglese Hermes, doveva dislocare 11.000 tonnellate, filare a 30 nodi di velocità ed essere armata con 18 cannoni da 102 (oppure 16 da 120); il gruppo aereo imbarcato doveva essere composto da sedici caccia.
Il primo progetto, del 1925, prevedeva un'unità "ibrida" da circa 12.500 tonnellate, a metà fra un incrociatore ed una portaerei: infatti il ponte di volo, pur a tutta larghezza, non si estendeva per tutta la lunghezza della nave, ma si interrompeva prima delle estremità, per consentire l'installazione a prora e poppa estrema di due torri quadruple da 203 mm., che avrebbero dotato la nave di un efficace armamento antinave, completato da sei cannoni da 100, sistemati su mensole laterali al ponte di volo, e da due impianti sestupli da 40, dislocati a prua ed a poppa. La poppa era conformata a scivolo per consentire la messa in mare ed il recupero degli idrovolanti da ricognizione di cui la nave era dotata. Al centro del ponte di volo si trovavano la torre di direzione del tiro, tre fumaioli e l'albero; questi erano però retrattili all'interno del ponte di volo per poter liberare completamente lo spazio di decollo ed atterraggio per gli aerei imbarcati. A fumaioli retratti lo scarico dei fumi sarebbe avvenuto tramite un condotto laterale.
Nel 1928 il progetto venne aggiornato prevedendo un'unità di circa 15.000 tonnellate (il che avrebbe consentito di sfruttare al meglio le 60.000 tonnellate di portaerei concesse all'Italia dal trattato di Washington), con velocità ed autonomia circa equivalenti a quelle delle unità maggiori (corazzate ed incrociatori) dell'epoca, armamento composto da sei torri binate da 152 e di otto, sempre binate, da 100 per la difesa antiaerea. Per la protezione, quella orizzontale sarebbe dovuta essere pari a quella degli incrociatori della classe Trento, mentre per quella verticale si prevedevano lamiere rinforzate in corrispondenza dei punti vitali della nave (apparato motore, depositi munizioni e benzina). Era previsto l'imbarco di circa 40 aerei: 18 caccia, 12 ricognitori e 6/12 aerei d'attacco. Ma, come ricorda un documento dell'epoca, "…la necessità di questo tipo (di nave, N.d.A.) non è stata ancora riconosciuta da S.E. il Ministro…".
Il progetto del 1932 prevedeva invece un'unità di tipo più convenzionale, da 15/16.000 tonnellate, dotata di ponte di volo continuo, "isola" sulla dritta spostata verso prora, armamento più consono ad una portaerei, e costituito da 4 cannoni da 152 e 7 da 102, ed un gruppo imbarcato di 40/45 aerei. Il progetto del 1936 rappresentava un ulteriore perfezionamento del precedente. Il dislocamento si aggirava sulle 15.000 tonnellate, l'armamento era costituito da due torrette trinate da 152 sistemate davanti e dietro l'isola, e da un congruo numero di cannoni antiaerei da 90, tutti in torrette singole disposte lungo il ponte di volo. Gli aerei erano in numero di 42: 24 da caccia e 18 da attacco/ricognizione, serviti da due o tre catapulte di lancio. Era prevista una leggera protezione verticale di 60 millimetri in corrispondenza delle parti vitali a centro nave e, se possibile, anche a prua; non era prevista alcuna protezione orizzontale, impossibile da realizzare con limiti di dislocamento così stretti. Era invece previsto un esteso sistema di protezione subacquea, costituito da un insieme di paratie distanziate di tre metri l'una dall'altra e racchiudenti al loro interno una sorta di secondo scafo che sarebbe dovuto rimanere indenne da eventuali danni. L'apparato motore sviluppava l'elevatissima potenza di 160.000 cavalli per una velocità massima di 38 (!) nodi, velocità che si era ritenuto necessario conferire alla nave per una efficace operatività; tuttavia da più parti venne fatto osservare che se ci si fosse "accontentati" di soli 32 nodi di velocità massima, si sarebbe potuta pressoché dimezzare la potenza dell'apparato motore, con sensibili vantaggi per la sua durata, per l'autonomia, e per lo spazio disponibile per le strutture aeronautiche: hangar, officine, depositi di munizioni e carburante, con positivi influssi sull'autonomia operativa della nave stessa. Oltretutto, in questo caso si sarebbe potuto fare ricorso ad un apparato motore diesel, con i ben noti vantaggi in termini di consumi, affidabilità e durata. Comunque, nonostante il fiorire di progetti e i pareri favorevoli di autorevoli personalità, della Marina e non, nessuno di questi progetti riuscì a materializzarsi e la Regia Marina arrivò al 10 Giugno 1940 senza portaerei e (praticamente) senza aviazione navale.
In questa situazione tutti i nodi vennero subito al pettine e già durante la battaglia di Punta Stilo si poté constatare cosa significasse dover richiedere l'appoggio aereo di reparti basati a terra senza che fosse stato definito uno straccio di procedura di comando e controllo comune. Se questo non fosse stato sufficiente, lo scontro di Gaudo e di Capo Matapan si incaricò di sgombrare definitivamente il campo da qualunque possibile dubbio sull'utilità di una portaerei in mare assieme alla squadra da battaglia.
La distruzione di tre incrociatori pesanti e della loro scorta da parte della Mediterranean Fleet fu possibile grazie alla presenza del radar sulle unità inglesi (e anche su questo aspetto tanto ci sarebbe da dire) e grazie alla puntuale e capillare ricognizione inglese che mantenne sempre l'ammiraglio Cunningham informato sulla posizione e situazione della flotta italiana. La presenza della portaerei Formidable, inoltre, consentì di lanciare quell'attacco di aerosiluranti (la sera del 28 marzo) che immobilizzò il Pola e che tante nefaste conseguenze avrebbe provocato.
Dopo quella giornata disgraziata non ci fu più nessuna esitazione: la Regia Marina doveva avere le portaerei! In luglio fu quindi dato ordine di provvedere alla conversione in portaerei (una portaerei di squadra) del transatlantico Roma, prescelto fra i possibili candidati in virtù di una serie di considerazioni che lo rendevano più adatto di altre navi alla conversione. Innanzitutto era una nave non vecchissima (aveva circa quindici anni) ma comunque bisognosa di lavori per poter rimanere competitiva nel suo settore; di conseguenza la società armatrice non avrebbe avuto grosse difficoltà a cederla per la trasformazione. Inoltre molte delle sue strutture interne dovevano essere rinnovate; tanto valeva quindi farlo in vista della trasformazione; infine il suo apparato motore non era più adeguato a necessitava anch'esso di importanti lavori. D'altra parte lo scafo era spazioso e robusto e avrebbe consentito di ricavare tutti i locali necessari all'operatività di una moderna portaerei.
I lavori di conversione cominciarono immediatamente. Lo scafo venne modificato nella parte immersa, con l'applicazione di controcarene, per minimizzare l'onda di prua e consentire un miglior scorrimento dell'acqua intorno allo scafo; venne anche allargato di circa 5 metri (comprese le controcarene). Le sistemazioni interne furono completamente riviste per ricavare innanzitutto l'aviorimessa, capace di contenere circa 30/40 aerei, le officine e tutti i locali di servizio necessari per l'operatività degli aerei imbarcati.
L'apparato motore (originariamente con quattro turbine Parsons, che consentiva una velocità massima di circa 21,5 nodi) fu completamente sostituito: al suo posto vennero imbarcati quattro gruppi turboriduttori in origine progettati per gli incrociatori leggeri della classe "Capitani Romani", che si erano resi disponibili dopo la cancellazione di quattro dei dodici incrociatori inizialmente previsti. Ognuno di questi gruppi aveva una potenza massima di oltre 50.000 cavalli; per l'impiego sull'Aquila vennero limitati a 37.500 e vennero dotati di nuove eliche adatte ad una nave più grande ma meno veloce.
Le sovrastrutture della nave consistevano in una plancia di comando a più ponti posta circa a metà nave sul lato dritto, seguita da un grande fumaiolo in cui erano convogliati gli scarichi delle caldaie. Il ponte di volo era continuo da prora a poppa e non faceva, ovviamente parte integrante dello scafo, ma era sostenuto da apposite strutture. Sui lati del ponte stesso si trovavano numerose mensole che sostenevano sia l'armamento della nave che alcune altre attrezzature.
L'armamento era essenzialmente rivolto alla difesa antiaerea e consisteva in otto cannoni da 135/45 e dodici da 65/64, in impianti singoli posti su mensole ai lati del ponte di volo, a prua ed a poppa. Vi erano inoltre 132 mitragliere da 20/65 in ventidue impianti a sei canne, distribuiti sui lati del ponte di volo e davanti e dietro l'isola. Come si può vedere un armamento di tutto rispetto e sicuramente adeguato alle necessità.
l gruppo di volo doveva consistere di 51 aerei; il tipo prescelto (si era deciso di non sviluppare aerei appositi per l'impiego imbarcato per problemi legati ai tempi di sviluppo) era il caccia Reggiane Re-2001. Si trattava di un caccia monomotore monoposto entrato in servizio nel 1941, propulso da un motore Daimler Benz da 1175 HP (realizzato su licenza dall'Alfa Romeo) e capace di una velocità massima di circa 540 Km/h. L'armamento consisteva in quattro mitragliatrici, due da 12,7 e due da 7,7; inoltre era presente un gancio ventrale per l'attacco di una bomba (in vista dell'impiego come cacciabombardiere). La versione imbarcata era stata essenzialmente modificata nel carrello, irrobustito in vista degli appontaggi, e nella previsione di un gancio di arresto posteriore. La disposizione dei 51 aerei era un classico esempio dell'ingegnosità italiana: siccome la capacità della nave, fra aviorimessa e aerei parcheggiati sul ponte di volo era di soli 36 aerei (rispettivamente 26 e 10), si era "inventato" un meccanismo tramite il quale altri quindici aerei venivano letteralmente appesi al soffitto dell'aviorimessa, portando così il totale a 51. Era prevista anche la realizzazione di una versione ad ali ripiegabili del Re-2001; con questo modello la capacità della nave sarebbe salita a 66 aerei.
La protezione era, ovviamente, molto limitata dall'origine dell'Aquila, ed era essenzialmente limitata alle parti vitali: niente ponte di volo corazzato, niente cintura corazzata, ma solo una leggera blindatura in corrispondenza del locale del timone e dei locali dell'apparato motore. Inoltre alcune intercapedini in corrispondenza delle controcarene erano state riempite di cemento per aumentare in qualche modo la protezione.
Era destino tuttavia che l'Italia dovesse terminare la seconda guerra mondiale senza portaerei. Nel settembre 1943 l'Aquila era ormai quasi completamente allestita e pronta ad iniziare le prove in mare, quando fu sorpresa dall'armistizio a Genova e catturata dai tedeschi; venne ulteriormente danneggiata da un bombardamento aereo alleato il 16 giugno 1944 e quindi affondata in porto da un'incursione di mezzi d'assalto italiani il 19 aprile del 1945. Il relitto fu poi recuperato e demolito nel dopoguerra.
Ma l'Aquila non sarebbe dovuta rimanere sola. Nel 1942 fu deciso di trasformare in portaerei anche un'altra nave, quasi gemella del Roma, e cioè l'Augustus. Questa trasformazione però doveva essere molto più limitata: la Sparviero (così infatti doveva chiamarsi la nuova portaerei) sarebbe stata una portaerei di scorta, con una struttura simile a quella delle portaerei di scorta alleate: ponte di volo continuo, nessuna isola, scarico dei fumi laterale, armamento composto da 6 pezzi da 152 e 4 da 102 disposti ai lati del ponte di volo, aerei imbarcati una ventina. L'apparato motore sarebbe rimasto quello originale, costituito da motori diesel in grado di spingere la nave a circa 18 nodi. I lavori, iniziati nel novembre del 1942, furono fermati dall'armistizio dell'anno successivo in uno stadio ancora molto arretrato: in pratica la nave era stata solamente "rasata" al livello del ponte di coperta, ma non era stato ancora realizzato niente delle nuove strutture della portaerei. Anche questa realizzazione, dunque, sfumò nella nebbia dell'armistizio dell'8 settembre. Per avere finalmente una portaerei la Marina italiana avrebbe dovuto aspettare altri quarant'anni, con l'entrata in servizio, nel 1985, dell'incrociatore portaeromobili (o portaerei leggera) Giuseppe Garibaldi.
La storia delle portaerei italiane nella seconda Guerra Mondiale non può terminare senza qualche ulteriore considerazione. Si è detto da più parti che la presenza delle portaerei nella Regia Marina avrebbe permesso di combattere ad armi pari la Royal Navy, che certi avvenimenti (vedi Matapan) avrebbero preso tutt'altra piega, addirittura che si poteva vincere la guerra (!!).
È opportuno considerare alcune cose. Anzitutto il numero di queste fantomatiche portaerei; considerando il costo di queste unità, la capacità cantieristica italiana, la consistenza delle marine probabili avversarie di quella italiana (principalmente quella francese che nel 1940 aveva una portaerei in servizio, la Béarn, e due in programma), non è ragionevole pensare che le portaerei italiane potessero essere più di una o due (al massimo dell'ottimismo tre). Analogamente è plausibile supporre che non sarebbero state superportaerei del tipo Saratoga o Akagi, ma navi di caratteristiche più contenute, come si è visto dai vari progetti presentati nel corso degli anni. Avere in servizio due portaerei vuol dire che, a parte periodi assolutamente eccezionali, ne è normalmente disponibile solo una, mentre l'altra sarà probabilmente in lavori di manutenzione o modifica, in addestramento, oppure starà riparando i danni subiti. Il tutto non considerando che queste navi sarebbero diventate il bersaglio prioritario dell'aviazione e della marina inglesi: è quindi probabile che prima o poi una sarebbe anche stata affondata.
Queste poche portaerei cosa avrebbero dovuto fare? Accompagnare la squadra navale nelle sue (rare) incursioni a caccia del naviglio avversario? Scortare i convogli per l'Africa Settentrionale, assicurando così la copertura aerea? Fare entrambe le cose? Andare a caccia di sommergibili? Come si vede una vasta serie di compiti che, sicuramente, due portaerei non avrebbero potuto svolgere. Se accompagnavano la squadra, forse a Matapan non avremmo perduto tre incrociatori e due caccia, forse avremmo distrutto qualche convoglio inglese in più, ma per i nostri convogli non sarebbe cambiato un gran che. Se avessero accompagnato e scortato i convogli probabilmente Rommel avrebbe ricevuto un maggior quantitativo di rifornimenti, ma le sorti della campagna d'Africa non sarebbero per questo cambiate di molto; e la nostra flotta, nel frattempo, sarebbe sempre rimasta senza gli occhi assicurati dall'aviazione imbarcata. Se avessero dato la caccia ai sommergibili, non avrebbero fatto niente di quanto detto finora e sarebbero state esposte al grosso rischio di prendersi qualche siluro in pancia.
In definitiva questo discorso ci porta a concludere che quelle due, al massimo tre, portaerei che l'Italia mussoliniana avrebbe ragionevolmente potuto permettersi, non avrebbero sicuramente cambiato il corso degli eventi nella Seconda Guerra Mondiale; sicuramente sarebbero risultate utili, su questo non c'è alcun dubbio, per una migliore condotta delle operazioni, avrebbero probabilmente evitato alcuni brutti episodi (brutti per il loro esito finale, non per il valore e l'eroismo dimostrati dai marinai italiani). Ma, ripetiamo, quello che sarebbe veramente servito all'Italia, come e forse di più delle portaerei, sarebbe stata un'aviazione navale forte e organizzata, con basi distribuite su tutto il territorio nazionale e oltremare per permettere una buona copertura del Mediterraneo, ed un buon coordinamento con le operazioni della squadra navale. Questo avrebbe permesso anche di valorizzare al massimo le portaerei, consentendo un loro utilizzo ottimale.
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Il miraggio della portaerei
La portaerei Aquila
Finalmente, dopo la riconosciuta necessità di dotarsi di portaerei, e soprattutto dopo la tragedia di Capo Matapan, il Comando Supremo si rese conto che la costruzione della portaerei non poteva essere ulteriormente rimandata, e Mussolini in persona ne ordinò la costruzione. Nel luglio del 1941 fu quindi ufficialmente ordinata la costruzione della tanto auspicata portaerei.
Il progetto prevedeva la modifica del solito Roma, a cui andavano sostituiti i motori con quelli di due incrociatori leggeri della classe Capitani Romani, come prevedeva già il progetto Bozzoni. La velocità sarebbe così stata di circa 30 nodi, per unità che avrebbe assolto pienamente ai suoi compiti in squadra.
Lo scafo venne largamente modificato con l'applicazione di controcarene sia per permettere all'unità di raggiungere velocità elevate sia pe migliorare la protezione subacquea nei confronti dei siluri. Venne installata una corazzatura che variava dai 60 agli 80 millimetri ai depositi di carburante e di munizioni e le controcarene vennero riempite con uno spessore di 600 mm di cemento armato, anche questo come nel precedente progetto Bozzoni.
L'unità era a ponte continua con una voluminosa isola a più piani sul lato di dritta, con numerose piazzole per le armi antiaeree. Piazzole simili erano presenti anche ai lati dello scafo per sostenere anche l'armamento antisilurante.
Pesante sarebbe stato l'armamento antiaereo. Oltre a otto canoni da 135/45, non è chiaro se anche in funzione contraerea, sarebbero stati presenti dodici bocche da 65/64 e ben 132 mitragliere da 20/65 in affusti binati.
Per quanto riguarda gli aerei imbarcati si era deciso di optare per il caccia Reggiane Re.2001, già in carico alla Regia Aeronautica. Si trattava di un caccia monoplano monomotore ad ala bassa, spinto da un motore Daimler Benz da 1.175 hp, armato di due mitragliatrici da 12.7 mm e due da 7.7 mm, ma era anche presente la versione da caccia notturna con un cannoncino da 20 mm, oltre la possibilità di portare una bomba da 640 kg nella configurazione di cacciabombardiere. Toccava la velocità massima di 540 km/h. L'Aquila sarebbe stata in grado di imbarcarne 51, inattesa della versione con le ali ripiegabili, che avrebbe permesso il trasporto di 66 velivoli. L'unità sarebbe inoltre stata dotata di catapulte a vapore per facilitare l'involo degli aeroplani.
L'Aquila, nonostante gli sforzi fatti, non entrò mai in servizio. Già danneggiata nel corso dell'allestimento, nel novembre 1942, alla data dell'8 settembre 1943 era praticamente pronta per i collaudi e le prove in mare, completa per il 90%. Il 9 settembre fu sabotata ed abbandonata dall'equipaggio, e cadde nelle mani dei tedeschi. Il 16 giugno 1944 venne bombardata in porto a Genova da aerei americani, e per finire nella notte del 19 aprile 1945 venne attaccata da mezzi d'assalto della Marina Italiana del Sud, per evitare che i tedeschi la affondassero all'imboccatura del porto. Venne ritrovata semisommersa già il 24 aprile 1945, e, recuperata, venne demolita nel 1952.
La portaerei Sparviero
L'Aquila non fu la sola unità del genere messa in cantiere in Italia. Dalla trasformazione dell'Augustus, nave gemella del Roma, doveva scaturire una portaerei di scorta, attraverso modifiche molto più semplici di quelle attuate sull'altra nave.
I motori sarebbero stati quelli originali, in grado di spingere l'unità a non più di 20 nodi, mentre lo scafo sarebbe stato rasato completamente, sul modello di quanto progettato da Gagnotto nel 1936, cioè senza isola. Ci sarebbero state almeno due catapulte e mensole laterali per le armi di bordo. L'unità sarebbe stata dotata di dodici cannoni da 135/45, altrettanti da 65/64 e svariate mitragliere da 20/65.
La Sparviero sarebbe stata in grado di imbarcare una ventina di aerei.
L'8 settembre i lavori erano ancora appena all'inizio, erano state appena eliminate le sovrastrutture. Il 5 ottobre 1944 venne affondata all'imboccatura del porto di Genova come ostruzione. Recuperata nel 1947, in seguito venne demolita.
In questo modo l'avventura della portaerei italiana era definitivamente conclusa. Si dovrà aspettare fino al 1985, con l'entrata in linea della Garibaldi, per vedere finalmente tale tipo di nave in Italia, ed ancora fino al 2007 per vedere la nuova grande nave portaerei, la Andrea Doria, attualmente in costruzione a Riva Trigoso.
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sabato 28 marzo 2009

1941 – L’avventura dell’Eritrea

Come la nave coloniale "Eritrea" gabbò la marina britannica
Nel 1941, alla vigilia della caduta della base navale italiana di Massaua, un'unità tricolore tenta una missione disperata per sfuggire alla cattura da parte delle forze britanniche: raggiungere il lontano Giappone attraversando l'Oceano Indiano e i mari del Sud Est asiatico. Epopea di una nave e del suo coraggioso equipaggio che, attraverso mille insidie, riuscirono a portare a compimento un'impresa che, sia sotto il profilo nautico che militare, ha assunto i connotati di un vero e proprio record.
Quando verso la fine di gennaio del 1941 la situazione militare in Africa Orientale Italiana iniziò ad aggravarsi e fu subito chiaro che la grande offensiva scatenata dalle forze britanniche di stanza in Sudan avrebbe prima o poi investito anche la base navale di Massaua (Eritrea), Supermarina attuò alcuni provvedimenti, preventivamente studiati, relativi all'abbandono della base da parte di tutte quelle unità, civili e militari (italiane ma anche di nazionalità tedesca), in grado di raggiungere porti neutrali o amici. Tuttavia, ai responsabili delle forze navali italiane di Massaua (nella fattispecie, l'Ammiraglio Bonetti) fu subito chiaro che il tentativo di sfuggire alla morsa nemica sarebbe riuscito soltanto ad un numero relativamente modesto di unità, cioè a quelle dotate di autonomia e attrezzature sufficienti ad affrontare le traversata che le avrebbe dovute condurre in salvo.
Per quanto concerneva la squadra militare, le uniche navi adatte ad intraprendere una così difficile missione (i porti neutrali o amici più vicini erano quelli della colonia francese del Madagascar) risultavano essere la nave coloniale Eritrea e le ex bananiere Ramb I e Ramb II, che erano state recentemente trasformate in incrociatori ausiliari. Dopo avere analizzato tutte le possibili rotte da percorrere, Supermarina decise di fare tentare alle tre unità (che tra tutte erano quelle in migliori condizioni e le uniche armate) la traversata più lunga e difficile: quella che avrebbe dovuto condurle in Estremo Oriente, dove avrebbero potuto trovare rifugio presso i sorgitori controllati dall'alleato giapponese.
L'approntamento delle tre unità venne ufficializzato nei primi giorni di febbraio e, per prima cosa, un folto gruppo di tecnici e marinai venne incaricato di iniziare immediatamente i lavori di revisione degli scafi, degli apparati motore e dell'armamento di bordo, nel mentre l'intendenza della base provvedeva a rifornire le navi di tutto l'occorrente (carburante, pezzi di ricambio, munizioni, viveri, acqua potabile e medicinali) per la missione.
Delle tre unità quella che per caratteristiche tecniche e belliche e per composizione dell'equipaggio risultava forse la più idonea a svolgere una così lunga missione era l'Eritrea: una nave piuttosto moderna (era entrata in servizio il 28 giugno 1937) destinata a specifici compiti coloniali. Senza nulla togliere alle due Ramb che pur essendo anch'esse dei buoni scafi, non erano state però concepite per svolgere impieghi che includessero azioni belliche. La presenza nel Mar Rosso e in Oceano Indiano di diverse basi militari britanniche e di numerose unità da guerra della Royal Navy, faceva infatti intendere che la missione delle tre navi italiane avrebbe, probabilmente, comportato l'incontro e lo scontro con il nemico: eventualità che si sarebbe trasformata in una autentica iattura per i piroscafi civili Ramb che poco avrebbero potuto fare contro navi militari britanniche.
L'Eritrea, dal canto suo, non era certo una nave da guerra temibilissima, ma proprio per le sue caratteristiche "militari" avrebbe potuto, in ogni caso, cavarsela meglio. Ovviamente, solo nel caso di un suo incontro con unità sottili nemiche. L'armamento dell'Eritrea risultava, infatti, sufficiente a controbattere la potenza di fuoco di un dragamine, di una torpediniera o, al massimo, di un caccia. Valutate tutte le soluzioni atte a dare il massimo dell'efficienza tecnica e operativa alla nave, l'ammiraglio Bonetti lavorò affinché l'equipaggio ad essa destinato fosse scelto con grande cura, affidando il comando dell'unità ad un ufficiale di vagliata esperienza: il capitano di fregata Marino Iannucci che alla fine di gennaio era stato fatto venire appositamente dall'Italia a bordo di un trimotore speciale Savoia Marchetti SM75 a lunga autonomia.
LA NAVE COLONIALE "ERITREA"
La nave coloniale Eritrea era, come si è detto, un'unità piuttosto moderna e ben riuscita. Impostata il 25 luglio 1935 nel cantiere di Castellamare di Stabia, essa venne varata il 20 settembre dell'anno seguente, entrando poi in servizio il 28 giugno 1937. La nave misurava 96,90 metri, era larga 13,32 metri e aveva un'immersione di 4,73 metri. Lo scafo dislocava 3.117 tonnellate ed era dotato di 2 motori diesel da 7.800 cavalli più 2 propulsori elettrici da 1.300 cavalli, che consentivano una velocità massima (diesel) di 20 nodi e una (elettrica) di 11. L'autonomia dell' Eritrea era di 6.950 miglia marine ad 11,8 nodi di velocità (diesel). E l'armamento di bordo era composto da 4 cannoni da 120 millimetri (su due torrette binate, prodiera e poppiera, parzialmente scudate), da 2 cannoncini semiautomatici da 40 mm. antiaerei e da 2 mitragliere da 13,2 mm. antiaeree. L'equipaggio della nave era formato da 13 ufficiali e 221 marinai.
GIAPPONE E GERMANIA LESINANO LA LORO COLLABORAZIONE
Prima di addentrarci nel racconto della missione dell'Eritrea, è opportuno fare il quadro della situazione politico-militare del periodo, in stretta relazione con gli avvenimenti concomitanti e con l'atteggiamento diplomatico del Giappone, nazione alla quale il Governo italiano aveva chiesto la necessaria collaborazione per la riuscita della missione dell'Eritrea e delle Ramb I e Ramb II. In un primo momento (nell'autunno del 1940), la disponibilità a cooperare da parte di Tokyo era apparsa ai vertici di Supermarina (organo al quale spettava, ovviamente, il coordinamento di tutte le operazioni coinvolgenti le unità italiane) quasi certa.
Tuttavia, dopo qualche mese (tra il febbraio e il marzo 1941), il governo dell'alleato nipponico decise di fare un passo indietro, costringendo il Comando della Regia a modificare improvvisamente alcuni dettagli inerenti all'operazione combinata delle tre unità. Nella fattispecie, quando gli addetti militari giapponesi a Roma vennero a sapere che era intenzione di Supermarina non soltanto fare fuggire le sue navi dislocate a Massaua in direzione del Far East, ma fare compiere ad esse, durante la traversata, azioni di guerra nei confronti di isolati piroscafi britannici, Tokyo comunicò subito la sua totale disapprovazione, minacciando di ritirare ogni promessa fatta in precedenza.
Per questa ragione, l'11 marzo del '41, cioè ben più tardi della partenza delle tre navi da Massaua (in quella data l'Eritrea e la Ramb II si trovavano in procinto di passare dall'Oceano Indiano al Mar delle Molucche, mentre la Ramb I - comandata dal tenente di vascello Bonezzi -giaceva già in fondo al mare essendo stata intercettata e affondata da un incrociatore britannico Leader ad ovest delle Maldive il 27 febbraio), Supermarina dovette comunicare ai comandanti delle due unità superstiti (la Ramb II era comandata dal tenente di vascello Mazzella) di astenersi tassativamente da qualsiasi azione offensiva.
Contrordine che venne impartito per due precisi motivi: l'assoluta volontà manifestata dal Giappone di non inimicarsi l'Inghilterra e gli Stati Uniti e la presenza in Oceano Indiano di navi corsare tedesche che già da tempo si appoggiavano, più o meno segretamente, a basi nipponiche del Pacifico. Nella circostanza, fu anche l'atteggiamento, altrettanto palesemente contrario, dell'Ammiragliato germanico (che temeva un'intrusione di unità italiane, peraltro bellicamente poco efficienti, nelle aree battute dai propri efficientissimi "corsari") a fare desistere Supermarina dai suoi progetti offensivi. A questo proposito, va ricordato che, ai primi di marzo del '41, il responsabile dell'ufficio Collegamento della Kriegsmarine di Roma, ammiraglio Weichold, aveva messo in guardia Supermarina circa "l'inopportunità diplomatica e tecnica di una disposizione - quella di affidare all'Eritrea e alle due Ramb il compito di effettuare 'guerra di corsa' in Oceano Indiano o in Oceano Pacifico - che avrebbe potuto incrinare seriamente i rapporti tra Germania, Italia e Giappone": un consiglio, quello dell'ammiraglio tedesco, che assumeva, per il tono e la sostanza, i connotati di un vero e proprio ordine che il Comando della Regia (già fortemente dipendente nei confronti della Germania per le forniture di nafta) non ebbe la forza di ignorare.
UN VIAGGIO DI SOLA ANDATA
L'Eritrea lascia la base di Massaua all'imbrunire del 18 febbraio, e la sera seguente supera agevolmente lo stretto di Bab el Mandeb, sfuggendo alla ricognizione aerea inglese di base ad Aden. Il 22, quando la nave si trova a circa 250 miglia dalla costa somala, il comandante Marino Iannucci è costretto ad ordinare il "posto di combattimento" per l'avvistamento di un'unità sconosciuta, individuata ad una distanza di circa 30 chilometri. Passato un quarto d'ora, il comandante ha più chiara la situazione, distinguendo con il binocolo alcune caratteristiche della nave che si rivela essere un grosso incrociatore ausiliario inglese da 12/14.000 tonnellate, presumibilmente armato con più pezzi da 152 millimetri.
Fortunatamente, l'unità inglese (dopo avere, a sua volta, avvistato l'Eritrea) effettua un'improvvisa manovra di allontanamento, dando la chiara impressione di volere evitare lo scontro. Il comportamento del nemico agevola Iannucci che fa subito accostare a dritta l'Eritrea, favorendo l'allontanamento. L'equipaggio italiano tira un sospiro di sollievo. Tuttavia, alle 19,23 del giorno successivo le vedette dell'Eritrea avvistano, al largo dell'Isola di Socotra, un altro piroscafo che viaggia a fanali spenti. Gli uomini tornano ai loro posti di combattimento. La sensazione di Iannucci è infatti quella di trovarsi di fronte ad un "avviso scorta" della classe Pathan.
Giunto ad una distanza di 6.000 metri, il comandante italiano accosta e cerca di allontanarsi, ma si accorge che la nave nemica non intende abbandonare il contatto visivo, forse per fare accorrere sul posto altre unità da guerra. Iannucci sa bene che in quel quadrante di Oceano sono frequenti i convogli scortati britannici operativi lungo le rotte Socotra-Mahè e Mombasa-Bombay. Il rischio di essere intercettati da preponderanti forze nemiche è quindi molto alto. La tensione a bordo sale. Gli artiglieri, in posizione ai loro pezzi da 120 e anche le mitragliere da 40 e quelle da 13,2 sono pronti al tiro. Le vedette scrutano l'orizzonte, ma la visibilità è molto bassa a causa dell'oscurità.
Sulla plancia, accanto ad alcuni marinai fa la guardia anche un personaggio decisamente strano, un ascaro eritreo quarantenne di nome Mohammed Shun Omar; un uomo alto, magro e con il turbante bianco in testa. Egli è l'unico elemento di colore imbarcato sull'Eritrea. Mohammed viene più volte consultato dai suoi compagni. Gira voce che sia dotato di un particolare intuito extrasensoriale. In circostanze drammatiche come questa, i marinai, stirpe notoriamente scaramantica, si appellano non soltanto a ciò che è noto ma anche all'ignoto. Mohammed guarda l'oscurità, senza battere un ciglio, in totale silenzio, poi si volta verso i compagni e li rassicura sussurrando: "Tranquilli, la nave nemica non aprirà il fuoco". E così accade.
Il comandante Iannucci, dopo avere tentato invano di sganciarsi dall'unità inglese, sempre alle calcagna, cerca di allungare la distanza che separa quest'ultima dall'Eritrea (i due scafi stavano viaggiando quasi paralleli e ad una distanza di neanche due chilometri). La situazione si fa troppo pericolosa. Da un momento all'altro i cannoni della nave nemica potrebbero aprire il fuoco. Gli artiglieri italiani sono sempre ai loro posti, ma Iannucci preferirebbe evitare un combattimento. Un colpo fortunato dell'avversario potrebbe colpire qualche organo vitale della nave o peggio (sulla coperta sono, tra l'altro sistemati, ben 750 fusti di nafta aggiuntivi imbarcati a Massaua per aumentare l'autonomia della nave) e compromettere l'intera missione.
Quindi, meglio sganciarsi, protetti da una cortina fumogena. E così l'Eritrea accosta a dritta verso sud, azionando i fumogeni che in pochi minuti la avvolgono completamente. Sconcertata dall'improvvisa manovra di Iannucci, la nave inglese non apre il fuoco e cerca invece di aggirare la cortina di sopravento per poi accostare a sinistra e riprendere il contatto. Ma la manovra fallisce in quanto l'Eritrea riesce a dileguarsi nella notte. Come raccontò lo stesso comandante Iannucci: "alle 23,00, dopo accuratissime esplorazioni, le mie vedette si accorsero che il nemico era stato seminato. La missione poteva quindi procedere e l'Eritrea si avventurava in pieno Oceano Indiano, in direzione sud-sud est", lasciandosi alle spalle l'isola di Socotra, e il nemico con un palmo di naso.
L'8 marzo 1941, dopo circa 16 giorni di navigazione piuttosto tranquilla nel corso della quale l'Eritrea non incrocia navi nemiche, l'unità italiana raggiunge le acque a sud di Giava, tra la grande isola olandese e il piccolo isolotto di Christmas. Tutto procede per il meglio: il morale dell'equipaggio è altissimo e i motori dell'unità non sembrano affaticati dalla lunga traversata. L'Eritrea è quasi a metà del suo viaggio. Il comandante Iannucci annota sul suo diario di bordo: "Fra tre giorni mi troverò nei mari della Malesia. Le rotte e i passaggi sono obbligati; non ho come in Oceano Indiano la possibilità di evitare di essere avvistato da qualche nave nemica e di sfuggirle scegliendo la rotta che più fa comodo nei 360° dell'orizzonte.
Sono quindi costretto a provvedere al camuffamento della nave. Ed escludendo che possa trasformare l'Eritrea in un mercantile, non mi rimane che cercare sull'almanacco navale un'unità militare appartenente ad un paese neutrale che abbia una sagoma abbastanza vicina alla nostra". Dopo qualche ora di attenta ricerca, Iannucci trova sull'annuario una bella immagine fotografica del Pedro Nunez, un avviso scorta portoghese che, assomiglia parecchio all'Eritrea. La scelta da parte di Iannucci di una nave lusitana non è casuale. Il Portogallo possiede infatti metà orientale dell'Isola di Timor (quella occidentale è sotto dominio olandese) e come nazione non belligerante può inviare in quelle acque (che verranno solcate dall'Eritrea) qualsiasi nave militare, senza che la Marina britannica se ne preoccupi più di tanto.
Per cercare di fare coincidere il più possibile le caratteristiche esterne delle due unità, Iannucci fa innalzare sull'Eritrea un finto tripode di prora e fa costruire un altrettanto finto pezzo di murata lungo la sezione poppiera di coperta. "Oltre a ciò, rivestiamo due stralli del trinchetto in modo che abbiano un diametro di una trentina di centimetri, e invece che a murata faccio loro dormiente in coperta più spostati al centro, in modo che il tripode risulti giustamente divaricato. Alla battagliola di poppa, infine, faccio mettere il para gambe pitturato in grigio come il resto dello scafo". Effettuate queste modifiche, l'Eritrea risulta quasi completamente somigliante al Pedro Nunez. Intanto la navigazione procede e la nave italiana punta verso l'Isola di Sumba, situata ad occidente di Timor.
L'11 marzo, Iannucci riceve un telecifrato da Supermarina che gli consiglia il passaggio lungo il canale tra Timor e la piccola isola di Alor per poi addentrarsi nel Mare di Banda. Il 14 marzo, dopo avere doppiato la costa ovest dell'Isola di Buru ed essere riuscita a sfilare ad occidente dell'Isola di Waigeo, l'Eritrea esce dal Mare di Banda ed entra finalmente nell'Oceano Pacifico, puntando decisamente verso nord-est. Il 16 marzo, la nave si lascia sulla sua destra l'Isola di Yap (Isole Caroline occidentali) e prosegue la sua navigazione verso nord in direzione delle Isole Bonin, che raggiunge il giorno 18.
L'Eritrea naviga ora in una zona posta sotto il controllo della Marina Imperiale giapponese. Salvo qualche sgradito ma improbabile incontro con qualche unità britannica, la lunga missione sembra volgere a termine nel migliore dei modi. E così è. Pochi giorni dopo essersi lasciata alle spalle le Bonin, la nave coloniale italiana raggiunge Kobe. Ad accogliere e a festeggiare il comandante Iannucci e il suo equipaggio non sono in molti. Soltanto una piccola e discreta delegazione diplomatica e militare italiana attende su un molo. La conclusione dell'epica missione dell'Eritrea non deve suscitare infatti troppo clamore.
Questo è il desiderio espresso dal governo e dalla Marina di Tokyo che, curiosamente, proprio in quei giorni stanno ultimando in gran segreto i dettagli di un eventuale attacco a sorpresa contro le forze anglo-americane in Asia.
Alberto Rosselli

L'avventurosa vita della regia Nave Eritrea
lettera scritta da un elettricista della Nave e spedita da Singapore il 27 ottobre 1945.
L’incrociatore Coloniale “ERITREA"
Classificata Incrociatore, fu progettata nel 1934 dal Maggiore Generale del Genio Navale Icilio d’Esposito, impostata l’anno successivo presso il Cantiere Navale di Castellammare di Stabia e consegnata alla Marina il 10 febbraio 1937. Aveva un dislocamento a pieno carico di 3.117 tonnellate. Era dotato di un duplice apparato di propulsione: il principale costituito da due motori diesel della potenza di 7.000 C.V. e il secondario, accoppiato sugli stessi assi, formato da due motori elettrici alimentati da un gruppo diesel-dinamo da 650 C.V. I due sistemi assicuravano alla Nave una velocità di 20 nodi, con il funzionamento contemporaneo dei due sistemi e 18 nodi con i soli motori diesel. – La sua autonomia era di circa 7.000 miglia alla velocità di 11,8 nodi. – Era armato con 4 cannoni da 120/45, 2 mitragliere da 40/39 e 4 da 13,2 millimetri. L’Equipaggio era costituito da 234 uomini, compresi 13 Ufficiali
Progettata per il servizio nei climi caldi delle Colonie, aveva un armamento bellico multiruolo, dovendo essere in grado di assolvere funzioni di Avviso-Scorta, Posamine ed appoggio Sommergibili.
La sua prima missione significativa avvenne nel giugno del 1937, allo scoppio della guerra civile spagnola. In quell’occasione fu inviata nel Mediterraneo Occidentale. Sul finire dell’anno, compiuta la missione, fu destinata a Pola.
Agli inizi del 1938, alzando l’insegna del C.V. Mario Zambon, Comandante Superiore Navale in Africa Orientale Italiana, fu dislocata a Massaua in appoggio ai Sommergibili della Base. e in quella sede operò fino all’imminenza dell’occupazione dell’Eritrea da parte delle truppe britanniche.
Effettuati i lavori di manutenzione all’apparato motore ed allo scafo, imbarcati viveri ed acqua e ridotto l’Equipaggio, tenendo a bordo il solo personale indispensabile, la Nave era pronta ad affrontare la sua più difficile ed impegnativa missione
La notte del 19 febbraio 1941, al Comando del C.F. Marino Jannucci, in tutta segretezza, lasciò Massaua con l’ordine di forzare il blocco navale anglo-francese e raggiungere l’alleato Giappone. (continua)

Marino Iannucci
L' ammiraglio Marino Iannucci nacque a Castro dei Volsci il 15 Aprile 1900 da una famiglia di modesti agricoltori. Adolescente si iscrisse alla Regia Accademia Navale di Livorno e nel 1919 concluse gli studi con il grado di Guardiamarina. Fu imbarcato su numerose navi nelle quali maturò l'esperienza della navigazione e finalmente l'anno successivo, fu nominato Tenente di Vascello sulla nave S. Marco. Promosso Capitano di Fregata prese il comando della nave da guerra Eritrea. Subito dopo la guerra, promosso al grado di Contrammiraglio, fu nominato presidente del Tribunale Militare Territoriale di La Spezia. Dall' Ottobre 1952 alla morte, avvenuta a Genova il 15 Settembre 1953, fu Direttore Idrografico della Marina.



RN Eritrea
La Eritrea fu una nave della Regia Marina che prese parte alla seconda guerra mondiale attrezzata per l'appoggio ai sommergibili e adatta per la posa delle mine.
La costruzione dell'unita avvenne negli stabilimenti della Navalmeccanica di Castellammare di Stabia dove lo scafo venne impostato il 25 luglio 1935. Varata il 20 settembre 1936 la nave entrò in servizio il 28 giugno 1937. La propulsione era di 2 motori diesel da 7.800 cavalli più 2 propulsori elettrici da 1.300 cavalli, che consentivano con la propulsione diesel una velocità massima di 20 nodi e con la propulsione elettrica di 11 nodi. L'autonomia con la propulsione diesel era di 6.950 miglia a 12 nodi. L'armamento era costituito da 4 cannoni da 120 mm in due torrette binate, parzialmente scudate, una prodiera e una poppiera, da 2 cannoncini semiautomatici da 40mm antiaerei e da 2 mitragliere da 13,2 mm antiaeree. L'equipaggio della nave era formato da 13 ufficiali e 221 marinai.
Venne destinata al porto di Massaua, nel Mar Rosso, presso il Comando Navale dell'Africa Orientale Italiana, rimanendovi fino al 18 febbraio 1941 quando Supermarina diede l'ordine di raggiungere l' Estremo Oriente forzando il blocco inglese.
L'unità, al comando del capitano di fregata Marino Iannucci, lasciata Massaua la sera seguente superò agevolmente lo stretto di Bab el-Mandeb, sfuggendo alla ricognizione aerea inglese di base ad Aden. Il 22 quando la nave si trovava a circa 250 miglia dalla costa somala venne avvistata un'unità sconosciuta, presumibilmente un incrociatore ausiliario inglese che dopo avere, a sua volta, avvistato l'Eritrea effettuò un'improvvisa manovra di allontanamento, dando la chiara impressione di volere evitare lo scontro. Tuttavia, alle 19,23 del giorno successivo le vedette dell'Eritrea avvistano, al largo dell'isola di Socotra, un'altra unità inglese. Il comandante Iannucci per sganciarsi dall'unità inglese, accostò a dritta verso sud, azionando i fumogeni che in pochi minuti avvolsero completamente l'Eritrea. La nave inglese anziché aprire il fuoco cercò di aggirare la cortina per riprendere successivamente il contatto, ma la manovra fallì in quanto l'Eritrea riuscì a dileguarsi nella notte.
Insieme all'Eritrea da Massaua erano partite altre due navi, la RAMB I, affondata il 27 febbraio dall'incrociatore neozelandese HMNZS Leander e la RAMB II. Per la riuscita della missione dell'Eritrea e della RAMB superstite era necessaria la collaborazione giapponese e la disponibilità a cooperare da parte del Giappone legato all'Italia dal Patto tripartito era quasi certa. Tuttavia tra il febbraio e il marzo 1941, il governo di Tokio decise di fare un passo indietro, costringendo la Regia Marina a modificare alcuni dettagli dell'operazione. Concordato con i giapponesi la unità italiane, durante la traversata, dovevano astenersi da qualsiasi azione corsara nei confronti di isolati piroscafi britannici, minacciando in caso contrario di rifiutare qualsiasi collaborazione. Questo poiché il Giappone non voleva inimicarsi l'Inghilterra e gli Stati Uniti vista anche la presenza nell'Oceano Indiano di navi corsare tedesche che già da tempo si appoggiavano, più o meno segretamente, a basi giapponesi del Pacifico. Anche i comandi della Kriegsmarine avevano mostrato la loro preoccupazione che navi corsare italiane interferissero in acque battute dalle proprie navi corsare e invitarono i comandi della Regia Marina a far desistere le proprie unità di compiere qualsiasi azione corsara durante il trasferimento, un invito che il Comando della Regia Marina, fortemente dipendente dai tedeschi per le forniture di nafta, non poteva ignorare, per cui alle due navi che erano impegnate nella missione di trasferimento l'11 marzo venne dato da Supermarina l'ordine di astenersi da qualsiasi azione corsara.
Proseguendo il viaggio, dovendo poi obbligatoriamente transitare nelle acque della Malesia attraverso lo Stretto di Malacca per passare dall'Oceano Indiano al Pacifico, per sfuggire alla caccia di unità nemiche l'equipaggio ricorse al camuffamento della nave rendendola quasi completamente somigliante al Pedro Nunez un avviso-scorta portoghese che somigliava parecchio all'Eritrea. Il Portogallo possedeva la metà orientale dell'Isola di Timor (mentre quella occidentale era sotto dominio olandese) e come nazione non belligerante poteva inviare in quelle acque qualsiasi nave militare senza che la Royal Navy se ne preoccupasse più di tanto.
Il 14 marzo, passando lungo il canale tra Timor e l'isola di Alor entrando nel Mar di Banda l'Eritrea dopo aver doppiato la costa occidentale dell'isola di Buru entrò finalmente nell'Oceano Pacifico puntando verso Nord-Est. Dopo aver lasciato alla propria destra le Yap, un gruppo di isole delle Caroline il 16 marzo l'Eritrea raggiunse il 18 marzo una zona sotto il controllo della Marina Imperiale giapponese, approdando pochi giorni dopo a Kobe riuscendo così ad arrivare indenne in Giappone. Ad accogliere e a festeggiare l'Eritrea e il suo equipaggio fù solamente una piccola e discreta delegazione diplomatica e militare italiana su un molo. La conclusione dell'epica missione dell'Eritrea non doveva suscitare infatti troppo clamore.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, l'Eritrea, sempre al comando di Marino Iannucci riuscì a fuggire dal Giappone rifugiandosi in India dove venne internata dalle autorità marittime britanniche.
Rientrata poi in Italia al termine della guerra, nel 1948, in ottemperanza alle clausole del trattato di pace venne ceduta alla Francia. .
Entrata a far parte della Marine Nationale il 12 febbraio 1948 la nave venne ribattezzata Francis Garnier e classificata Aviso cebbe assegnato il distintivo ottico F 730.
Il Francis Garnier partecipò alla guerra d'Indocina con compiti di scorta. Sottoposto a lavori di ammodernamento dal 1951 al 1953, con la fine della dominazione francese in Indocina prese parte dal 1954 alle operazione di evacuazione dei cittadini francesi dal Tonchino lasciando Saigon nel 1955. Dal 1956 al 1957 svolse dei lavori in un cantiere del Giappone prima di essere destinato ad operare nelle colonie francesi del Pacifico. Dal 1959 al 1960 venne sottoposto ad un nuovo ciclo di lavori alla base britannica di Diego Garcia. Destinato a Papeete nell'isola di Tahiti nella Polinesia francese, il Francis Garnier venne collocato in riserva il 1° gennaio 1966 per essere radiato il successivo 5 ottobre. Usato come bersaglio in un esperimento nucleare svolto nell'atollo di Mururoa, il Francis Garnier affondò il 29 ottobre 1966 alle 16:15 ora di Mururoa. Il relitto giace a circa 1300 metri di profondità.
(fonte)

RN RAMB I
La nave RAMB I fu una bananiera veloce della Marina mercantile italiana, allo scoppio della seconda guerra mondiale venne convertita in incrociatore ausiliario. Fu costruita a Sestri Ponente nel cantiere Ansaldo nel 1937.
Il Ministero delle Colonie del Regno d'Italia aveva la necessità di trasportare nel territorio metropolitano le banane prodotte in Somalia, all'epoca colonia italiana, per questo motivo ordinò quattro unità che dovevano aveve un'autonomia sufficiente per effettuare il percorso da Mogadiscio a Napoli senza soste intermedie ed a pieno carico. In base a queste necessità furono costruite 4 navi frigorifere che dovevano essere gestite dalla Regia Azienda Monopolio Banane (RAMB), due nel Cantiere Ansaldo di Genova Sestri e due dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico di Monfalcone. In base a disposizioni legislative precedenti, fin dalla costruzione delle unità era prevista la possibilità di trasformarle in incrociatori ausiliari, con 4 pezzi da 120/40mm in coperta. I materiali per la militarizzazione delle navi furono posti in deposito a Massaua per due unità ed a Napoli per le altre due. Il 10 giugno 1940, data dell'entrata in guerra dell'Italia l'unica della quattro navi a trovarsi nel Mediterraneo era la RAMB III mentre le altre tre si trovavano nel Mar Rosso, quindi senza alcuna possibilità di collegarsi con il territorio metropolitano.
La RAMB I dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia il 10 giugno 1940 fù messa a disposizione del Comando Navale Africa Orientale Italiana. La conversione della bananiera in incrociatore ausiliario fu fatta nel porto eritreo di Massaua, venendo armata con 2 cannoni da 120/40 mm e 2 mitragliere da 13,2 mm antiaeree. Con la caduta dell'Africa Orientale Italiana, la RAMB I, insieme alla nave coloniale Eritrea e alla RAMB II, partirono per l'Estremo Oriente.
Partita da Massaua al comando del tenente di vascello Bonezzi la "RAMB I" il 27 febbraio 1941 incontrò sulla sua rotta l'incrociatore neozelandese HMNZS Leander che inziò a colpirla con cinque salve. Così la RAMB I venne affondata e il suo equipaggio, 113 marinai, incluso il comandante, vennero tratti in salvo dall'incrociatore neozelandese e sbarcati in seguito nell'Atollo di Addu e successivamente trasferiti come prigionieri di guerra nel campo prigionia di Colombo a Ceylon con la nave cisterna Pearleaf.
(fonte)

RN RAMB II
La nave RAMB II fu una bananiera veloce della Marina mercantile italiana, allo scoppio della seconda guerra mondiale venne convertita in incrociatore ausiliario. Fu costruita presso i Cantieri Riuniti dell' Adriatico di Monfalcone nel 1937.
Il Ministero delle Colonie del Regno d'Italia aveva la necessità di trasportare nel territorio metropolitano le banane prodotte in Somalia, all'epoca colonia italiana, per questo motivo ordinò quattro unità che dovevano aveve un'autonomia sufficiente per effettuare il percorso da Mogadiscio a Napoli senza soste intermedie ed a pieno carico. In base a queste necessità furono costruite 4 navi frigorifere che dovevano essere gestite dalla Regia Azienda Monopolio Banane (RAMB), due nei cantieri Ansaldo di Genova-Sestri Ponente e due dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico di Monfalcone. In base a disposizioni legislative precedenti, fin dalla costruzione delle unità era prevista la possibilità di trasformarle in incrociatori ausiliari, con 4 pezzi da 120/40 in coperta. I materiali per la militarizzazione delle navi furono posti in deposito a Massaua per due unità ed a Napoli per le altre due. Il 10 giugno 1940, data dell'entrata in guerra dell'Italia, la RAMB III era l'unica della quattro navi che si trovava in Mediterraneo mentre le altre tre si trovavano nel Mar Rosso e quindi senza alcuna possibilità di collegarsi con il territorio metropolitano.
La RAMB II dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia il 10 giugno 1940 fu messa a disposizione del Comando Navale Africa Orientale Italiana. La conversione della bananiera in incrociatore ausiliario fu fatta nel porto eritreo di Massaua, venendo armata con 2 cannoni da 120/40 mm e 2 mitragliere da 13,2 mm antiaeree.
Con la caduta dell'Africa Orientale Italiana, la RAMB II, insieme alla nave coloniale Eritrea e alla RAMB I, partirono per l'Estremo Oriente. La Ramb I fu affondata il 27 febbraio 1941 dall'incrociatore neozelandese HMNZS Leander, mentre il 23 marzo successivo la RAMB II raggiunse Kobe in Giappone. Subito dopo, la RAMB II fu sottoposta a lavori di ammodernamento per operare come corsara nell'Oceano Pacifico.
Dopo l'armistizio dell' 8 settembre 1943, la RAMB II fu presa in consegna dalla Marina Imperiale giapponese e ribattezzata Calitea II, prestando servizio per i giapponesi fino al 12 gennaio 1945 quando venne affondata da un aereo americano.
(fonte)

Bibliografia
Marino Iannucci, L'avventura dell'Eritrea, 1. ed. 1951, 2. ed. Roma, Rivista marittima, 1985

sabato 14 marzo 2009

1936 – RDT EC1













Il radar italiano
Non si può parlare del radar italiano senza fare una breve premessa sulla storia del radar stesso perché le vicissitudini che portarono alla sua realizzazione ed impiego in campo bellico hanno percorso cammini differenti nei vari paesi anche se tutte hanno un inizio in comune. Il problema di rilevare le eco prodotti dalle onde elettromagnetiche si pose fin da quando nel
1901-1902, Kennelly, Heavsyde e Marconi scoprirono che queste onde venivano riflesse dalla ionosfera. Lo stesso problema della riflessione di onde venne successivamente sviluppato in altro campo dall'ingegnere tedesco Hulsmeyer che nel 1904 ottenne il brevetto per un apparato che chiamò "telemobiloscopio" che era in grado di ricevere l'eco di onde elettromagnetiche riflesse da oggetti metallici distanti qualche centinaio di metri. Gli studi e le esperienze proseguirono quasi parallelamente negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Germania, in Francia, in Giappone ed in Italia anche se in ciascun laboratorio le ricerche nel campo della propagazione e della riflessione vennero approfondite senza che gli studiosi avessero ancora formulato esplicitamente l'obiettivo finale delle loro ricerche, cioè quello che in seguito verrà chiamato "Radar" (radio detection and ranging).
Peraltro, mentre nel mondo venivano approfonditi gli studi sulle radiocomunicazioni iniziati da Guglielmo Marconi ed aumentavano le realizzazioni per le comunicazioni a grande distanza, con l'impiego di elevatissime potenze in trasmettitori ad onde "miriametriche", cioè a frequenze bassissime, in Italia Marconi promosse e si fece sostenitore dei collegamenti ad "onde corte", cioè ad alta frequenza, valendosi di sistemi di antenna "a fascio" ed iniziando, a partire dal 1916, una serie di esperienze che sfruttavano la direzionalità dei sistemi "a fascio" . Ciò lo portò ad intravedere il loro utilizzo in campo navale per rivelare la presenza di oggetti metallici a grande distanza. In una relazione rimasta celebre da lui presentata il 20 giugno 1922 all' "American Institute of Electrical Engineers" ed all' "Institute of Radio Engineers", Marconi formulava concrete previsioni circa la possibilità di utilizzare le onde radio per realizzare un sistema ausiliario della navigazione marittima, basato sulle possibilità delle onde elettriche di essere riflesse da corpi conduttori. Tra l'altro disse :
"... In alcune mie esperienze ho rilevato effetti di riflessione e rivelazione di tali onde da parte di oggetti metallici a distanza di miglia. Io ritengo che dovrebbe essere possibile progettare apparati con cui una nave potrebbe irradiare o proiettare un fascio divergente di questi raggi in una qualunque direzione scelta, i quali raggi, incontrando un oggetto metallico, come un altro piroscafo o nave, sarebbero riflessi verso un ricevitore schermato dal trasmettitore locale [ubicato] sulla nave trasmittente e quindi rivelare immediatamente la presenza e la direzione dell'altra nave anche entro nebbia o in tempo cattivo".
Non c'è dubbio, quindi, che nella mente di Marconi già nel 1922 l'idea del radar fosse inequivocabilmente chiara e basata non soltanto su speculazioni teoriche ma anche su riscontri sperimentali. Soltanto a partire dal 1924 i fisici inglesi Appleton e Barnett e, successivamente, i fisici americani Breit e Stuve, con procedimenti completamente diversi, iniziarono gli esperimenti per la registrazione delle eco riflesse dagli strati ionosferici, travasando nella gamma radio la tecnica di rilevazione delle eco già sviluppata nella gamma acustica: gli inglesi seguendo uno schema basato sulla modulazione di frequenza, gli americani seguendo uno schema basato sul metodo ad impulsi. Questi si possono considerare i punti di partenza per gli studi che portarono alla realizzazione di apparati per la radiolocalizzazione, i veri progenitori dei Radar.
Da questi punti di partenza i percorsi della ricerca scientifica si diversificarono nei vari laboratori seguendo principi differenti. Tutti, però, erano accomunati dal fatto che man mano che si delineava più chiaramente la possibilità dell'impiego militare dei risultati, sempre più aumentava la riservatezza sui progressi raggiunti. Alcuni governi ed alcuni Stati Maggiori furono molto lungimiranti nell'intravedere l'enorme importanza che rivestiva, particolarmente in campo navale ed aereo, la localizzazione di ostacoli lontani (potenziali "bersagli") mediante l'impiego di onde radioelettriche. Tale lungimiranza comportò la differenza di assegnazione di risorse economiche e scientifiche per l'approfondimento di questo problema tanto importante. Lo Stato Maggiore inglese, ad esempio, appoggiò decisamente gli studi iniziati dal prof. Watson Watt (poi "sir") che condussero alla realizzazione nel 1935 di apparati sperimentali che, via via perfezionati, fecero sì che all'inizio degli anni '40 l'Inghilterra disponesse di una rete radar costiera per l'avvistamento aereo e di radar navali per la scoperta sia aerea che navale e per la direzione del tiro.
In Italia, invece, per quanto si riferisce allo sviluppo delle ricerche, le cose procedettero in maniera molto, molto diversa. Nel 1933 Marconi eseguì, alla presenza di autorità militari italiane, esperienze sulle fluttuazioni che si verificavano nella ricezione di segnali per effetto del passaggio di automobili nelle vicinanze del fascio di un ponte radio che emetteva onde di 90 centimetri installato fra Roma e Castelgandolfo. A queste esperienze si interessò anche il giovane ingegnere Ugo Tiberio, allora Sottotenente di Complemento in servizio di leva presso l'Istituto Militare Superiore delle Trasmissioni (ISMT) in Roma.
Negli anni successivi, Marconi condusse altre serie di esperienze di radiolocalizzazione fino ad arrivare nel 1935 alla presentazione alle più alte autorità italiane di un apparato chiamato "radioecometro" che però ancora non era abbastanza potente per poter essere di interesse militare. Questa presentazione fu, però, sufficiente per scatenare la fantasia dei giornalisti che arrivarono a parlare di "raggio della morte" scambiando come carbonizzati dalle radiazioni dell'apparato realizzato da Marconi i resti di una pecora che in effetti era stata arrostita da pastori dell'Agro romano !
Per l'approfondimento dell'aspetto militare di questi esperimenti fu costituita un'apposita Commissione interministeriale che affidò l'incarico di continuare le ricerche all'ingegner Tiberio, allora non più Ufficiale di Complemento, ma dipendente dell'ISMT come ingegnere addetto ed insegnante di radiotecnica. L'ingegner Tiberio, per conto suo, fin dal 1931 si era autonomamente interessato a quelli che lui chiamò più tardi "Radio-Detector Telemetri" (RDT) e successivamente più semplicemente "Radiotelemetri" (RaRi) seguendo però sempre le esperienze di Marconi fino a quando, nel luglio del 1937, queste esperienze furono bruscamente interrotte per la morte di quest'ultimo. Nel corso delle sue ricerche, l'ormai "professor" Tiberio prospettò l'opportunità di approfondire le esperienze secondo i due metodi seguiti, rispettivamente, dai fisici inglesi e da quelli americani, cioè sia il metodo che utilizzava la modulazione di frequenza sia quello che utilizzava la tecnica degli impulsi, dato che la tecnologia del momento non privilegiava nessuno dei due metodi a causa delle ridotte potenze che si potevano ottenere con i componenti radio disponibili.
Per le solite limitazioni di bilancio che hanno sempre afflitto (e, ahimè, continuano ancora ad affliggere) la ricerca in Italia, il Comitato interministeriale preferì adottare la soluzione che sembrava la più economica ed il professor Tiberio dovette proseguire le ricerche seguendo soltanto la tecnica della modulazione di frequenza. Sul finire del 1935, Tiberio presentò una sua relazione nella quale era teoricamente sviluppato e risolto in tutti i dettagli, calcoli compresi, il problema della radiolocalizzazione. Di tale relazione che, ovviamente, era segreta, si sono perdute le tracce a causa degli eventi bellici. Lo stesso professore si rammaricava moltissimo di questa perdita perché era la dimostrazione evidente dei risultati ai quali era giunto precedendo tutti gli altri ricercatori nel mondo. Fortunatamente, di recente, i familiari del prof. Tiberio hanno trovato la bozza autografa di una seconda relazione datata 26 aprile 1936 XIV, di pochi mesi posteriore alla relazione del 1935, altrettanto completa e dettagliata e che indirettamente fa riferimento alla precedente [immagine al principio: frammento della prima pagina].
Ancora una volta si vede come fossero state individuate in tempo utile le possibilità offerte da questo particolare impiego delle radiofrequenze ma che, purtroppo, non destarono in chi doveva prendere delle decisioni, il grande interesse che esse meritavano
La proposta del professor Tiberio fu formalmente approvata dal Comitato e siccome il problema era considerato di competenza della Marina, che fra le tre forze armate era quella che dimostrava maggior interesse alla realizzazione del Radiotelemetro ed era la più organizzata dal punto di vista tecnico per la ricerca e lo sviluppo nel campo della radio-elettrotecnica (il termine "elettronica " al tempo ancora non esisteva), nel 1936 fu costituito un gruppo di lavoro diretto dallo stesso professor Tiberio presso il Regio Istituto Elettrotecnico e delle Comunicazioni della Marina (RIEC), ubicato fisicamente nel comprensorio dell'Accademia Navale di Livorno (l'istituto, che nell'ambiente era comunemente chiamato "Istituto EC" o "Marinelettro" , oggi è stato ridenominato Istituto per le Telecomunicazioni e l'Elettronica (Mariteleradar) dedicato al Professore ed Ammiraglio Giancarlo Vallauri che ne fu il primo e per molti anni direttore) . A questo gruppo fu affidato il compito di passare dagli studi teorici alla fase sperimentale. Il professor Tiberio, nel frattempo, era stato nominato Ufficiale di Complemento nel Corpo della Armi Navali e destinato in Accademia come insegnante di fisica e di radiotecnica, rispettivamente, ai Corsi normali ed ai Corsi di perfezionamento degli ufficiali del Genio Navale e delle Armi Navali.
I mezzi finanziari ed il personale messi a disposizione per tale arduo compito furono, però, limitatissimi (quattro sottufficiali, alcuni operai ed una assegnazione annuale di 20.000 lire - circa tredicimila Euro (venticinque milioni di lire) attuali, per cui il professor Tiberio dovette condurre quasi da solo lo sviluppo e la sperimentazione del prototipo del radiotelemetro già progettato teoricamente. Assieme al professor Tiberio iniziò a lavorare nel progetto anche il professor Nello Carrara, altro insegnate di fisica presso i Corsi normali dell'Accademia Navale. Il professor Carrara già dal 1924, giovane fisico, faceva parte dell'Istituto EC e, sin dal 1932 si occupava di ricerche nel campo delle microonde; è sua la creazione del neologismo "microonde" (e di "microwaves") nella letteratura scientifica dell'epoca. Il professor Carrara nel progetto "RDT" si occupò principalmente della progettazione e realizzazione di valvole di potenza e magnetron, componenti, questi, indispensabili per poter ottenere risultati apprezzabili. I due professori, non interrompendo i propri impegni di docenti (lezioni, esercitazioni, preparazione dispense, commissioni d'esame) non disdegnarono di partecipare direttamente anche alla realizzazione manuale e pratica delle apparecchiature.
Nacque così nel 1936 il primo RDT (Radio Detector Telemetro) ad onda continua E.C.1 (acronimo derivato dal nome dell'Istituto EC) cui seguirono nel 1937 l'E.C.1-bis e l'E.C.2 che non dettero risultati soddisfacenti. Nel 1937 entrò a far parte del gruppo di ricercatori il Capitano delle Armi Navali, ingegner Alfeo Brandimarte che cominciò subito a lavorare alla realizzazione sperimentale del prototipo dell'E.C.3, non più ad onda continua modulata in frequenza, ma ad impulsi. Questa collaborazione, però, fu di breve durata perché Brandimarte, per l'entrata in vigore di una strana legge fascista sul celibato, si vide precluse le possibilità di carriera in Marina e fu costretto a dare le dimissioni. Purtroppo cadde poi Martire della Resistenza ed alla sua memoria fu decretata la M.O.V.M.
l team di ricerca tornò di nuovo ad essere composto dal binomio Tiberio-Carrara che continuavano nel frattempo a mantenere i loro impegni didattici ! Vale la pena qui ricordare l'importante contributo fornito dal prof. Carrara che progettò una valvola, realizzata dall'industria italiana FIVRE (Fabbrica Italiana Valvole Radio Elettriche), che permise di raggiungere una potenza di picco di 10 KW e che inserita in un risonatore a cavità ad alto guadagno (Q), anch'esso di sua progettazione, permise di superare la difficoltà di ottenere potenze elevate su onde centimetriche (70 cm).
Nonostante tutto, però, data la lentezza con cui l'industria realizzava quanto progettato dai ricercatori e date le esigue quantità realizzate, si dovettero trovare anche altre strade per ottenere le potenze di picco richieste per una discreta portata del radiotelemetro. Dato che il mercato era ancora libero, si dovettero acquistare negli USA, ed esattamente presso la RCA, le valvole di potenza necessarie per soddisfare le esigenze dei ricercatori. Le prove sperimentali di due prototipi, condotte sempre nell'ambito dell'Istituto EC dalla fine del 1939, rispettivamente RDT3, costiero, ed E.C.3, navale, (dal dicembre 1940 modificato in E.C.3-bis), lasciarono intravedere la possibilità di conseguire risultati significativi. Le prove dell'E.C.3-bis subirono rallentamenti e ritardi sia per la necessità di ulteriori messe a punto, sia per il non eccessivo interesse delle alte gerarchie militari anche se, ad onor del vero, in Marina si stava risvegliando un certo interesse verso quella che nei decenni successivi verrà chiamata "Guerra elettronica". Tuttavia, alla fine di febbraio del 1941 le prove dimostrative dell'E.C.3-bis non erano ancora state eseguite !
Per evidenziare le difficoltà in cui si dibatteva questo esiguo team sembra opportuno riportare testualmente quanto scrisse nel 1951 lo stesso prof. Tiberio rievocando quei tempi pionieristici : " nel 1938, vista la difficoltà di trovare altri ricercatori da dedicare agli studi sul radar, il Ministero della Marina decise di impegnare nel tentativo una importante industria radio milanese, la quale, però, si ridusse a chiedere alla Marina i tecnici necessari avendo essa tutto il proprio personale già impegnato: la Marina non potè esaudire le richiesta e quindi anche questo tentativo rimase senza esito" (Tiberio - Sullo sviluppo delle cognizioni radar italiane durante la guerra - Rivista Marittima - Aprile 1951). Come dire : il cane che si mangia la coda !
Fu soltanto dopo le pesanti perdite subite dalla nostra Marina nella notte tra il 28 ed il 29 marzo del 1941 a Capo Matapan, quando divennero certezza i dubbi che la Marina inglese disponesse di apparecchiature di radiolocalizzazione, che fu rivalutata l'importanza di poter disporre anche in Italia di apparecchiature analoghe. Ancora una volta venne messo sotto pressione l'Istituto EC e, di conseguenza, i professori Tiberio e Carrara. Furono in gran fretta ripristinati i prototipi fino ad allora realizzati e da questi scaturirono due apparati, battezzati rispettivamente "Folaga" e "Gufo" che differivano principalmente per la banda di frequenza di lavoro e che facevano del "Folaga" un prototipo per la vigilanza costiera e del "Gufo" un prototipo per l'impiego navale.
Il "Folaga" operava su una banda compresa tra i 150 ed i 300 Mhz ( 2 - 1 metri) mentre il "Gufo" operava nella banda tra 400 ed i 750 Mhz (75 - 40 cm). Le prestazioni fornite da questi due prototipi furono davvero eccellenti. Si ricorda che durante le prove sperimentali del "Folaga" condotte sulla terrazza dell'Istituto EC nel maggio 1943 fu avvistata ad oltre 200 Km una formazione di aerei USA che stava sopraggiungendo.
(fonte)












Ugo Tiberio
inventore del "radiotelemetro"
Ugo Tiberio nacque a Campobasso il 19 agosto 1904.
Laureatosi a Napoli nel 1927 in ingegneria civile, si specializzò a Roma nel 1932 in elettrotecnica.
Chiamato alle arme come ufficiale di prima nomina nell'Esercito, passò nel 1936 nella Marina, quale vincitore del concorso per la nomina ad Ufficiale di complemento nel corpo delle Armi Navali. Destinato al RIEC, vi portò a termine gli studi già avviati sul radar, da lui chiamato radiotelemetro.
Fu professore universitario a Livorno, Cagliari, Napoli e Pisa, dove insegnò fino al 1979, anno del collocamento a riposo per limiti di età.
Morì a Livorno il 17 maggio 1980.
(fonte)

Chiariamo subito una cosa: il radar l'avevamo anche noi. Non lo chiamavamo così, ma l'avevamo.