sabato 28 marzo 2009

1941 – L’avventura dell’Eritrea

Come la nave coloniale "Eritrea" gabbò la marina britannica
Nel 1941, alla vigilia della caduta della base navale italiana di Massaua, un'unità tricolore tenta una missione disperata per sfuggire alla cattura da parte delle forze britanniche: raggiungere il lontano Giappone attraversando l'Oceano Indiano e i mari del Sud Est asiatico. Epopea di una nave e del suo coraggioso equipaggio che, attraverso mille insidie, riuscirono a portare a compimento un'impresa che, sia sotto il profilo nautico che militare, ha assunto i connotati di un vero e proprio record.
Quando verso la fine di gennaio del 1941 la situazione militare in Africa Orientale Italiana iniziò ad aggravarsi e fu subito chiaro che la grande offensiva scatenata dalle forze britanniche di stanza in Sudan avrebbe prima o poi investito anche la base navale di Massaua (Eritrea), Supermarina attuò alcuni provvedimenti, preventivamente studiati, relativi all'abbandono della base da parte di tutte quelle unità, civili e militari (italiane ma anche di nazionalità tedesca), in grado di raggiungere porti neutrali o amici. Tuttavia, ai responsabili delle forze navali italiane di Massaua (nella fattispecie, l'Ammiraglio Bonetti) fu subito chiaro che il tentativo di sfuggire alla morsa nemica sarebbe riuscito soltanto ad un numero relativamente modesto di unità, cioè a quelle dotate di autonomia e attrezzature sufficienti ad affrontare le traversata che le avrebbe dovute condurre in salvo.
Per quanto concerneva la squadra militare, le uniche navi adatte ad intraprendere una così difficile missione (i porti neutrali o amici più vicini erano quelli della colonia francese del Madagascar) risultavano essere la nave coloniale Eritrea e le ex bananiere Ramb I e Ramb II, che erano state recentemente trasformate in incrociatori ausiliari. Dopo avere analizzato tutte le possibili rotte da percorrere, Supermarina decise di fare tentare alle tre unità (che tra tutte erano quelle in migliori condizioni e le uniche armate) la traversata più lunga e difficile: quella che avrebbe dovuto condurle in Estremo Oriente, dove avrebbero potuto trovare rifugio presso i sorgitori controllati dall'alleato giapponese.
L'approntamento delle tre unità venne ufficializzato nei primi giorni di febbraio e, per prima cosa, un folto gruppo di tecnici e marinai venne incaricato di iniziare immediatamente i lavori di revisione degli scafi, degli apparati motore e dell'armamento di bordo, nel mentre l'intendenza della base provvedeva a rifornire le navi di tutto l'occorrente (carburante, pezzi di ricambio, munizioni, viveri, acqua potabile e medicinali) per la missione.
Delle tre unità quella che per caratteristiche tecniche e belliche e per composizione dell'equipaggio risultava forse la più idonea a svolgere una così lunga missione era l'Eritrea: una nave piuttosto moderna (era entrata in servizio il 28 giugno 1937) destinata a specifici compiti coloniali. Senza nulla togliere alle due Ramb che pur essendo anch'esse dei buoni scafi, non erano state però concepite per svolgere impieghi che includessero azioni belliche. La presenza nel Mar Rosso e in Oceano Indiano di diverse basi militari britanniche e di numerose unità da guerra della Royal Navy, faceva infatti intendere che la missione delle tre navi italiane avrebbe, probabilmente, comportato l'incontro e lo scontro con il nemico: eventualità che si sarebbe trasformata in una autentica iattura per i piroscafi civili Ramb che poco avrebbero potuto fare contro navi militari britanniche.
L'Eritrea, dal canto suo, non era certo una nave da guerra temibilissima, ma proprio per le sue caratteristiche "militari" avrebbe potuto, in ogni caso, cavarsela meglio. Ovviamente, solo nel caso di un suo incontro con unità sottili nemiche. L'armamento dell'Eritrea risultava, infatti, sufficiente a controbattere la potenza di fuoco di un dragamine, di una torpediniera o, al massimo, di un caccia. Valutate tutte le soluzioni atte a dare il massimo dell'efficienza tecnica e operativa alla nave, l'ammiraglio Bonetti lavorò affinché l'equipaggio ad essa destinato fosse scelto con grande cura, affidando il comando dell'unità ad un ufficiale di vagliata esperienza: il capitano di fregata Marino Iannucci che alla fine di gennaio era stato fatto venire appositamente dall'Italia a bordo di un trimotore speciale Savoia Marchetti SM75 a lunga autonomia.
LA NAVE COLONIALE "ERITREA"
La nave coloniale Eritrea era, come si è detto, un'unità piuttosto moderna e ben riuscita. Impostata il 25 luglio 1935 nel cantiere di Castellamare di Stabia, essa venne varata il 20 settembre dell'anno seguente, entrando poi in servizio il 28 giugno 1937. La nave misurava 96,90 metri, era larga 13,32 metri e aveva un'immersione di 4,73 metri. Lo scafo dislocava 3.117 tonnellate ed era dotato di 2 motori diesel da 7.800 cavalli più 2 propulsori elettrici da 1.300 cavalli, che consentivano una velocità massima (diesel) di 20 nodi e una (elettrica) di 11. L'autonomia dell' Eritrea era di 6.950 miglia marine ad 11,8 nodi di velocità (diesel). E l'armamento di bordo era composto da 4 cannoni da 120 millimetri (su due torrette binate, prodiera e poppiera, parzialmente scudate), da 2 cannoncini semiautomatici da 40 mm. antiaerei e da 2 mitragliere da 13,2 mm. antiaeree. L'equipaggio della nave era formato da 13 ufficiali e 221 marinai.
GIAPPONE E GERMANIA LESINANO LA LORO COLLABORAZIONE
Prima di addentrarci nel racconto della missione dell'Eritrea, è opportuno fare il quadro della situazione politico-militare del periodo, in stretta relazione con gli avvenimenti concomitanti e con l'atteggiamento diplomatico del Giappone, nazione alla quale il Governo italiano aveva chiesto la necessaria collaborazione per la riuscita della missione dell'Eritrea e delle Ramb I e Ramb II. In un primo momento (nell'autunno del 1940), la disponibilità a cooperare da parte di Tokyo era apparsa ai vertici di Supermarina (organo al quale spettava, ovviamente, il coordinamento di tutte le operazioni coinvolgenti le unità italiane) quasi certa.
Tuttavia, dopo qualche mese (tra il febbraio e il marzo 1941), il governo dell'alleato nipponico decise di fare un passo indietro, costringendo il Comando della Regia a modificare improvvisamente alcuni dettagli inerenti all'operazione combinata delle tre unità. Nella fattispecie, quando gli addetti militari giapponesi a Roma vennero a sapere che era intenzione di Supermarina non soltanto fare fuggire le sue navi dislocate a Massaua in direzione del Far East, ma fare compiere ad esse, durante la traversata, azioni di guerra nei confronti di isolati piroscafi britannici, Tokyo comunicò subito la sua totale disapprovazione, minacciando di ritirare ogni promessa fatta in precedenza.
Per questa ragione, l'11 marzo del '41, cioè ben più tardi della partenza delle tre navi da Massaua (in quella data l'Eritrea e la Ramb II si trovavano in procinto di passare dall'Oceano Indiano al Mar delle Molucche, mentre la Ramb I - comandata dal tenente di vascello Bonezzi -giaceva già in fondo al mare essendo stata intercettata e affondata da un incrociatore britannico Leader ad ovest delle Maldive il 27 febbraio), Supermarina dovette comunicare ai comandanti delle due unità superstiti (la Ramb II era comandata dal tenente di vascello Mazzella) di astenersi tassativamente da qualsiasi azione offensiva.
Contrordine che venne impartito per due precisi motivi: l'assoluta volontà manifestata dal Giappone di non inimicarsi l'Inghilterra e gli Stati Uniti e la presenza in Oceano Indiano di navi corsare tedesche che già da tempo si appoggiavano, più o meno segretamente, a basi nipponiche del Pacifico. Nella circostanza, fu anche l'atteggiamento, altrettanto palesemente contrario, dell'Ammiragliato germanico (che temeva un'intrusione di unità italiane, peraltro bellicamente poco efficienti, nelle aree battute dai propri efficientissimi "corsari") a fare desistere Supermarina dai suoi progetti offensivi. A questo proposito, va ricordato che, ai primi di marzo del '41, il responsabile dell'ufficio Collegamento della Kriegsmarine di Roma, ammiraglio Weichold, aveva messo in guardia Supermarina circa "l'inopportunità diplomatica e tecnica di una disposizione - quella di affidare all'Eritrea e alle due Ramb il compito di effettuare 'guerra di corsa' in Oceano Indiano o in Oceano Pacifico - che avrebbe potuto incrinare seriamente i rapporti tra Germania, Italia e Giappone": un consiglio, quello dell'ammiraglio tedesco, che assumeva, per il tono e la sostanza, i connotati di un vero e proprio ordine che il Comando della Regia (già fortemente dipendente nei confronti della Germania per le forniture di nafta) non ebbe la forza di ignorare.
UN VIAGGIO DI SOLA ANDATA
L'Eritrea lascia la base di Massaua all'imbrunire del 18 febbraio, e la sera seguente supera agevolmente lo stretto di Bab el Mandeb, sfuggendo alla ricognizione aerea inglese di base ad Aden. Il 22, quando la nave si trova a circa 250 miglia dalla costa somala, il comandante Marino Iannucci è costretto ad ordinare il "posto di combattimento" per l'avvistamento di un'unità sconosciuta, individuata ad una distanza di circa 30 chilometri. Passato un quarto d'ora, il comandante ha più chiara la situazione, distinguendo con il binocolo alcune caratteristiche della nave che si rivela essere un grosso incrociatore ausiliario inglese da 12/14.000 tonnellate, presumibilmente armato con più pezzi da 152 millimetri.
Fortunatamente, l'unità inglese (dopo avere, a sua volta, avvistato l'Eritrea) effettua un'improvvisa manovra di allontanamento, dando la chiara impressione di volere evitare lo scontro. Il comportamento del nemico agevola Iannucci che fa subito accostare a dritta l'Eritrea, favorendo l'allontanamento. L'equipaggio italiano tira un sospiro di sollievo. Tuttavia, alle 19,23 del giorno successivo le vedette dell'Eritrea avvistano, al largo dell'Isola di Socotra, un altro piroscafo che viaggia a fanali spenti. Gli uomini tornano ai loro posti di combattimento. La sensazione di Iannucci è infatti quella di trovarsi di fronte ad un "avviso scorta" della classe Pathan.
Giunto ad una distanza di 6.000 metri, il comandante italiano accosta e cerca di allontanarsi, ma si accorge che la nave nemica non intende abbandonare il contatto visivo, forse per fare accorrere sul posto altre unità da guerra. Iannucci sa bene che in quel quadrante di Oceano sono frequenti i convogli scortati britannici operativi lungo le rotte Socotra-Mahè e Mombasa-Bombay. Il rischio di essere intercettati da preponderanti forze nemiche è quindi molto alto. La tensione a bordo sale. Gli artiglieri, in posizione ai loro pezzi da 120 e anche le mitragliere da 40 e quelle da 13,2 sono pronti al tiro. Le vedette scrutano l'orizzonte, ma la visibilità è molto bassa a causa dell'oscurità.
Sulla plancia, accanto ad alcuni marinai fa la guardia anche un personaggio decisamente strano, un ascaro eritreo quarantenne di nome Mohammed Shun Omar; un uomo alto, magro e con il turbante bianco in testa. Egli è l'unico elemento di colore imbarcato sull'Eritrea. Mohammed viene più volte consultato dai suoi compagni. Gira voce che sia dotato di un particolare intuito extrasensoriale. In circostanze drammatiche come questa, i marinai, stirpe notoriamente scaramantica, si appellano non soltanto a ciò che è noto ma anche all'ignoto. Mohammed guarda l'oscurità, senza battere un ciglio, in totale silenzio, poi si volta verso i compagni e li rassicura sussurrando: "Tranquilli, la nave nemica non aprirà il fuoco". E così accade.
Il comandante Iannucci, dopo avere tentato invano di sganciarsi dall'unità inglese, sempre alle calcagna, cerca di allungare la distanza che separa quest'ultima dall'Eritrea (i due scafi stavano viaggiando quasi paralleli e ad una distanza di neanche due chilometri). La situazione si fa troppo pericolosa. Da un momento all'altro i cannoni della nave nemica potrebbero aprire il fuoco. Gli artiglieri italiani sono sempre ai loro posti, ma Iannucci preferirebbe evitare un combattimento. Un colpo fortunato dell'avversario potrebbe colpire qualche organo vitale della nave o peggio (sulla coperta sono, tra l'altro sistemati, ben 750 fusti di nafta aggiuntivi imbarcati a Massaua per aumentare l'autonomia della nave) e compromettere l'intera missione.
Quindi, meglio sganciarsi, protetti da una cortina fumogena. E così l'Eritrea accosta a dritta verso sud, azionando i fumogeni che in pochi minuti la avvolgono completamente. Sconcertata dall'improvvisa manovra di Iannucci, la nave inglese non apre il fuoco e cerca invece di aggirare la cortina di sopravento per poi accostare a sinistra e riprendere il contatto. Ma la manovra fallisce in quanto l'Eritrea riesce a dileguarsi nella notte. Come raccontò lo stesso comandante Iannucci: "alle 23,00, dopo accuratissime esplorazioni, le mie vedette si accorsero che il nemico era stato seminato. La missione poteva quindi procedere e l'Eritrea si avventurava in pieno Oceano Indiano, in direzione sud-sud est", lasciandosi alle spalle l'isola di Socotra, e il nemico con un palmo di naso.
L'8 marzo 1941, dopo circa 16 giorni di navigazione piuttosto tranquilla nel corso della quale l'Eritrea non incrocia navi nemiche, l'unità italiana raggiunge le acque a sud di Giava, tra la grande isola olandese e il piccolo isolotto di Christmas. Tutto procede per il meglio: il morale dell'equipaggio è altissimo e i motori dell'unità non sembrano affaticati dalla lunga traversata. L'Eritrea è quasi a metà del suo viaggio. Il comandante Iannucci annota sul suo diario di bordo: "Fra tre giorni mi troverò nei mari della Malesia. Le rotte e i passaggi sono obbligati; non ho come in Oceano Indiano la possibilità di evitare di essere avvistato da qualche nave nemica e di sfuggirle scegliendo la rotta che più fa comodo nei 360° dell'orizzonte.
Sono quindi costretto a provvedere al camuffamento della nave. Ed escludendo che possa trasformare l'Eritrea in un mercantile, non mi rimane che cercare sull'almanacco navale un'unità militare appartenente ad un paese neutrale che abbia una sagoma abbastanza vicina alla nostra". Dopo qualche ora di attenta ricerca, Iannucci trova sull'annuario una bella immagine fotografica del Pedro Nunez, un avviso scorta portoghese che, assomiglia parecchio all'Eritrea. La scelta da parte di Iannucci di una nave lusitana non è casuale. Il Portogallo possiede infatti metà orientale dell'Isola di Timor (quella occidentale è sotto dominio olandese) e come nazione non belligerante può inviare in quelle acque (che verranno solcate dall'Eritrea) qualsiasi nave militare, senza che la Marina britannica se ne preoccupi più di tanto.
Per cercare di fare coincidere il più possibile le caratteristiche esterne delle due unità, Iannucci fa innalzare sull'Eritrea un finto tripode di prora e fa costruire un altrettanto finto pezzo di murata lungo la sezione poppiera di coperta. "Oltre a ciò, rivestiamo due stralli del trinchetto in modo che abbiano un diametro di una trentina di centimetri, e invece che a murata faccio loro dormiente in coperta più spostati al centro, in modo che il tripode risulti giustamente divaricato. Alla battagliola di poppa, infine, faccio mettere il para gambe pitturato in grigio come il resto dello scafo". Effettuate queste modifiche, l'Eritrea risulta quasi completamente somigliante al Pedro Nunez. Intanto la navigazione procede e la nave italiana punta verso l'Isola di Sumba, situata ad occidente di Timor.
L'11 marzo, Iannucci riceve un telecifrato da Supermarina che gli consiglia il passaggio lungo il canale tra Timor e la piccola isola di Alor per poi addentrarsi nel Mare di Banda. Il 14 marzo, dopo avere doppiato la costa ovest dell'Isola di Buru ed essere riuscita a sfilare ad occidente dell'Isola di Waigeo, l'Eritrea esce dal Mare di Banda ed entra finalmente nell'Oceano Pacifico, puntando decisamente verso nord-est. Il 16 marzo, la nave si lascia sulla sua destra l'Isola di Yap (Isole Caroline occidentali) e prosegue la sua navigazione verso nord in direzione delle Isole Bonin, che raggiunge il giorno 18.
L'Eritrea naviga ora in una zona posta sotto il controllo della Marina Imperiale giapponese. Salvo qualche sgradito ma improbabile incontro con qualche unità britannica, la lunga missione sembra volgere a termine nel migliore dei modi. E così è. Pochi giorni dopo essersi lasciata alle spalle le Bonin, la nave coloniale italiana raggiunge Kobe. Ad accogliere e a festeggiare il comandante Iannucci e il suo equipaggio non sono in molti. Soltanto una piccola e discreta delegazione diplomatica e militare italiana attende su un molo. La conclusione dell'epica missione dell'Eritrea non deve suscitare infatti troppo clamore.
Questo è il desiderio espresso dal governo e dalla Marina di Tokyo che, curiosamente, proprio in quei giorni stanno ultimando in gran segreto i dettagli di un eventuale attacco a sorpresa contro le forze anglo-americane in Asia.
Alberto Rosselli

L'avventurosa vita della regia Nave Eritrea
lettera scritta da un elettricista della Nave e spedita da Singapore il 27 ottobre 1945.
L’incrociatore Coloniale “ERITREA"
Classificata Incrociatore, fu progettata nel 1934 dal Maggiore Generale del Genio Navale Icilio d’Esposito, impostata l’anno successivo presso il Cantiere Navale di Castellammare di Stabia e consegnata alla Marina il 10 febbraio 1937. Aveva un dislocamento a pieno carico di 3.117 tonnellate. Era dotato di un duplice apparato di propulsione: il principale costituito da due motori diesel della potenza di 7.000 C.V. e il secondario, accoppiato sugli stessi assi, formato da due motori elettrici alimentati da un gruppo diesel-dinamo da 650 C.V. I due sistemi assicuravano alla Nave una velocità di 20 nodi, con il funzionamento contemporaneo dei due sistemi e 18 nodi con i soli motori diesel. – La sua autonomia era di circa 7.000 miglia alla velocità di 11,8 nodi. – Era armato con 4 cannoni da 120/45, 2 mitragliere da 40/39 e 4 da 13,2 millimetri. L’Equipaggio era costituito da 234 uomini, compresi 13 Ufficiali
Progettata per il servizio nei climi caldi delle Colonie, aveva un armamento bellico multiruolo, dovendo essere in grado di assolvere funzioni di Avviso-Scorta, Posamine ed appoggio Sommergibili.
La sua prima missione significativa avvenne nel giugno del 1937, allo scoppio della guerra civile spagnola. In quell’occasione fu inviata nel Mediterraneo Occidentale. Sul finire dell’anno, compiuta la missione, fu destinata a Pola.
Agli inizi del 1938, alzando l’insegna del C.V. Mario Zambon, Comandante Superiore Navale in Africa Orientale Italiana, fu dislocata a Massaua in appoggio ai Sommergibili della Base. e in quella sede operò fino all’imminenza dell’occupazione dell’Eritrea da parte delle truppe britanniche.
Effettuati i lavori di manutenzione all’apparato motore ed allo scafo, imbarcati viveri ed acqua e ridotto l’Equipaggio, tenendo a bordo il solo personale indispensabile, la Nave era pronta ad affrontare la sua più difficile ed impegnativa missione
La notte del 19 febbraio 1941, al Comando del C.F. Marino Jannucci, in tutta segretezza, lasciò Massaua con l’ordine di forzare il blocco navale anglo-francese e raggiungere l’alleato Giappone. (continua)

Marino Iannucci
L' ammiraglio Marino Iannucci nacque a Castro dei Volsci il 15 Aprile 1900 da una famiglia di modesti agricoltori. Adolescente si iscrisse alla Regia Accademia Navale di Livorno e nel 1919 concluse gli studi con il grado di Guardiamarina. Fu imbarcato su numerose navi nelle quali maturò l'esperienza della navigazione e finalmente l'anno successivo, fu nominato Tenente di Vascello sulla nave S. Marco. Promosso Capitano di Fregata prese il comando della nave da guerra Eritrea. Subito dopo la guerra, promosso al grado di Contrammiraglio, fu nominato presidente del Tribunale Militare Territoriale di La Spezia. Dall' Ottobre 1952 alla morte, avvenuta a Genova il 15 Settembre 1953, fu Direttore Idrografico della Marina.



RN Eritrea
La Eritrea fu una nave della Regia Marina che prese parte alla seconda guerra mondiale attrezzata per l'appoggio ai sommergibili e adatta per la posa delle mine.
La costruzione dell'unita avvenne negli stabilimenti della Navalmeccanica di Castellammare di Stabia dove lo scafo venne impostato il 25 luglio 1935. Varata il 20 settembre 1936 la nave entrò in servizio il 28 giugno 1937. La propulsione era di 2 motori diesel da 7.800 cavalli più 2 propulsori elettrici da 1.300 cavalli, che consentivano con la propulsione diesel una velocità massima di 20 nodi e con la propulsione elettrica di 11 nodi. L'autonomia con la propulsione diesel era di 6.950 miglia a 12 nodi. L'armamento era costituito da 4 cannoni da 120 mm in due torrette binate, parzialmente scudate, una prodiera e una poppiera, da 2 cannoncini semiautomatici da 40mm antiaerei e da 2 mitragliere da 13,2 mm antiaeree. L'equipaggio della nave era formato da 13 ufficiali e 221 marinai.
Venne destinata al porto di Massaua, nel Mar Rosso, presso il Comando Navale dell'Africa Orientale Italiana, rimanendovi fino al 18 febbraio 1941 quando Supermarina diede l'ordine di raggiungere l' Estremo Oriente forzando il blocco inglese.
L'unità, al comando del capitano di fregata Marino Iannucci, lasciata Massaua la sera seguente superò agevolmente lo stretto di Bab el-Mandeb, sfuggendo alla ricognizione aerea inglese di base ad Aden. Il 22 quando la nave si trovava a circa 250 miglia dalla costa somala venne avvistata un'unità sconosciuta, presumibilmente un incrociatore ausiliario inglese che dopo avere, a sua volta, avvistato l'Eritrea effettuò un'improvvisa manovra di allontanamento, dando la chiara impressione di volere evitare lo scontro. Tuttavia, alle 19,23 del giorno successivo le vedette dell'Eritrea avvistano, al largo dell'isola di Socotra, un'altra unità inglese. Il comandante Iannucci per sganciarsi dall'unità inglese, accostò a dritta verso sud, azionando i fumogeni che in pochi minuti avvolsero completamente l'Eritrea. La nave inglese anziché aprire il fuoco cercò di aggirare la cortina per riprendere successivamente il contatto, ma la manovra fallì in quanto l'Eritrea riuscì a dileguarsi nella notte.
Insieme all'Eritrea da Massaua erano partite altre due navi, la RAMB I, affondata il 27 febbraio dall'incrociatore neozelandese HMNZS Leander e la RAMB II. Per la riuscita della missione dell'Eritrea e della RAMB superstite era necessaria la collaborazione giapponese e la disponibilità a cooperare da parte del Giappone legato all'Italia dal Patto tripartito era quasi certa. Tuttavia tra il febbraio e il marzo 1941, il governo di Tokio decise di fare un passo indietro, costringendo la Regia Marina a modificare alcuni dettagli dell'operazione. Concordato con i giapponesi la unità italiane, durante la traversata, dovevano astenersi da qualsiasi azione corsara nei confronti di isolati piroscafi britannici, minacciando in caso contrario di rifiutare qualsiasi collaborazione. Questo poiché il Giappone non voleva inimicarsi l'Inghilterra e gli Stati Uniti vista anche la presenza nell'Oceano Indiano di navi corsare tedesche che già da tempo si appoggiavano, più o meno segretamente, a basi giapponesi del Pacifico. Anche i comandi della Kriegsmarine avevano mostrato la loro preoccupazione che navi corsare italiane interferissero in acque battute dalle proprie navi corsare e invitarono i comandi della Regia Marina a far desistere le proprie unità di compiere qualsiasi azione corsara durante il trasferimento, un invito che il Comando della Regia Marina, fortemente dipendente dai tedeschi per le forniture di nafta, non poteva ignorare, per cui alle due navi che erano impegnate nella missione di trasferimento l'11 marzo venne dato da Supermarina l'ordine di astenersi da qualsiasi azione corsara.
Proseguendo il viaggio, dovendo poi obbligatoriamente transitare nelle acque della Malesia attraverso lo Stretto di Malacca per passare dall'Oceano Indiano al Pacifico, per sfuggire alla caccia di unità nemiche l'equipaggio ricorse al camuffamento della nave rendendola quasi completamente somigliante al Pedro Nunez un avviso-scorta portoghese che somigliava parecchio all'Eritrea. Il Portogallo possedeva la metà orientale dell'Isola di Timor (mentre quella occidentale era sotto dominio olandese) e come nazione non belligerante poteva inviare in quelle acque qualsiasi nave militare senza che la Royal Navy se ne preoccupasse più di tanto.
Il 14 marzo, passando lungo il canale tra Timor e l'isola di Alor entrando nel Mar di Banda l'Eritrea dopo aver doppiato la costa occidentale dell'isola di Buru entrò finalmente nell'Oceano Pacifico puntando verso Nord-Est. Dopo aver lasciato alla propria destra le Yap, un gruppo di isole delle Caroline il 16 marzo l'Eritrea raggiunse il 18 marzo una zona sotto il controllo della Marina Imperiale giapponese, approdando pochi giorni dopo a Kobe riuscendo così ad arrivare indenne in Giappone. Ad accogliere e a festeggiare l'Eritrea e il suo equipaggio fù solamente una piccola e discreta delegazione diplomatica e militare italiana su un molo. La conclusione dell'epica missione dell'Eritrea non doveva suscitare infatti troppo clamore.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, l'Eritrea, sempre al comando di Marino Iannucci riuscì a fuggire dal Giappone rifugiandosi in India dove venne internata dalle autorità marittime britanniche.
Rientrata poi in Italia al termine della guerra, nel 1948, in ottemperanza alle clausole del trattato di pace venne ceduta alla Francia. .
Entrata a far parte della Marine Nationale il 12 febbraio 1948 la nave venne ribattezzata Francis Garnier e classificata Aviso cebbe assegnato il distintivo ottico F 730.
Il Francis Garnier partecipò alla guerra d'Indocina con compiti di scorta. Sottoposto a lavori di ammodernamento dal 1951 al 1953, con la fine della dominazione francese in Indocina prese parte dal 1954 alle operazione di evacuazione dei cittadini francesi dal Tonchino lasciando Saigon nel 1955. Dal 1956 al 1957 svolse dei lavori in un cantiere del Giappone prima di essere destinato ad operare nelle colonie francesi del Pacifico. Dal 1959 al 1960 venne sottoposto ad un nuovo ciclo di lavori alla base britannica di Diego Garcia. Destinato a Papeete nell'isola di Tahiti nella Polinesia francese, il Francis Garnier venne collocato in riserva il 1° gennaio 1966 per essere radiato il successivo 5 ottobre. Usato come bersaglio in un esperimento nucleare svolto nell'atollo di Mururoa, il Francis Garnier affondò il 29 ottobre 1966 alle 16:15 ora di Mururoa. Il relitto giace a circa 1300 metri di profondità.
(fonte)

RN RAMB I
La nave RAMB I fu una bananiera veloce della Marina mercantile italiana, allo scoppio della seconda guerra mondiale venne convertita in incrociatore ausiliario. Fu costruita a Sestri Ponente nel cantiere Ansaldo nel 1937.
Il Ministero delle Colonie del Regno d'Italia aveva la necessità di trasportare nel territorio metropolitano le banane prodotte in Somalia, all'epoca colonia italiana, per questo motivo ordinò quattro unità che dovevano aveve un'autonomia sufficiente per effettuare il percorso da Mogadiscio a Napoli senza soste intermedie ed a pieno carico. In base a queste necessità furono costruite 4 navi frigorifere che dovevano essere gestite dalla Regia Azienda Monopolio Banane (RAMB), due nel Cantiere Ansaldo di Genova Sestri e due dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico di Monfalcone. In base a disposizioni legislative precedenti, fin dalla costruzione delle unità era prevista la possibilità di trasformarle in incrociatori ausiliari, con 4 pezzi da 120/40mm in coperta. I materiali per la militarizzazione delle navi furono posti in deposito a Massaua per due unità ed a Napoli per le altre due. Il 10 giugno 1940, data dell'entrata in guerra dell'Italia l'unica della quattro navi a trovarsi nel Mediterraneo era la RAMB III mentre le altre tre si trovavano nel Mar Rosso, quindi senza alcuna possibilità di collegarsi con il territorio metropolitano.
La RAMB I dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia il 10 giugno 1940 fù messa a disposizione del Comando Navale Africa Orientale Italiana. La conversione della bananiera in incrociatore ausiliario fu fatta nel porto eritreo di Massaua, venendo armata con 2 cannoni da 120/40 mm e 2 mitragliere da 13,2 mm antiaeree. Con la caduta dell'Africa Orientale Italiana, la RAMB I, insieme alla nave coloniale Eritrea e alla RAMB II, partirono per l'Estremo Oriente.
Partita da Massaua al comando del tenente di vascello Bonezzi la "RAMB I" il 27 febbraio 1941 incontrò sulla sua rotta l'incrociatore neozelandese HMNZS Leander che inziò a colpirla con cinque salve. Così la RAMB I venne affondata e il suo equipaggio, 113 marinai, incluso il comandante, vennero tratti in salvo dall'incrociatore neozelandese e sbarcati in seguito nell'Atollo di Addu e successivamente trasferiti come prigionieri di guerra nel campo prigionia di Colombo a Ceylon con la nave cisterna Pearleaf.
(fonte)

RN RAMB II
La nave RAMB II fu una bananiera veloce della Marina mercantile italiana, allo scoppio della seconda guerra mondiale venne convertita in incrociatore ausiliario. Fu costruita presso i Cantieri Riuniti dell' Adriatico di Monfalcone nel 1937.
Il Ministero delle Colonie del Regno d'Italia aveva la necessità di trasportare nel territorio metropolitano le banane prodotte in Somalia, all'epoca colonia italiana, per questo motivo ordinò quattro unità che dovevano aveve un'autonomia sufficiente per effettuare il percorso da Mogadiscio a Napoli senza soste intermedie ed a pieno carico. In base a queste necessità furono costruite 4 navi frigorifere che dovevano essere gestite dalla Regia Azienda Monopolio Banane (RAMB), due nei cantieri Ansaldo di Genova-Sestri Ponente e due dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico di Monfalcone. In base a disposizioni legislative precedenti, fin dalla costruzione delle unità era prevista la possibilità di trasformarle in incrociatori ausiliari, con 4 pezzi da 120/40 in coperta. I materiali per la militarizzazione delle navi furono posti in deposito a Massaua per due unità ed a Napoli per le altre due. Il 10 giugno 1940, data dell'entrata in guerra dell'Italia, la RAMB III era l'unica della quattro navi che si trovava in Mediterraneo mentre le altre tre si trovavano nel Mar Rosso e quindi senza alcuna possibilità di collegarsi con il territorio metropolitano.
La RAMB II dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia il 10 giugno 1940 fu messa a disposizione del Comando Navale Africa Orientale Italiana. La conversione della bananiera in incrociatore ausiliario fu fatta nel porto eritreo di Massaua, venendo armata con 2 cannoni da 120/40 mm e 2 mitragliere da 13,2 mm antiaeree.
Con la caduta dell'Africa Orientale Italiana, la RAMB II, insieme alla nave coloniale Eritrea e alla RAMB I, partirono per l'Estremo Oriente. La Ramb I fu affondata il 27 febbraio 1941 dall'incrociatore neozelandese HMNZS Leander, mentre il 23 marzo successivo la RAMB II raggiunse Kobe in Giappone. Subito dopo, la RAMB II fu sottoposta a lavori di ammodernamento per operare come corsara nell'Oceano Pacifico.
Dopo l'armistizio dell' 8 settembre 1943, la RAMB II fu presa in consegna dalla Marina Imperiale giapponese e ribattezzata Calitea II, prestando servizio per i giapponesi fino al 12 gennaio 1945 quando venne affondata da un aereo americano.
(fonte)

Bibliografia
Marino Iannucci, L'avventura dell'Eritrea, 1. ed. 1951, 2. ed. Roma, Rivista marittima, 1985

sabato 14 marzo 2009

1936 – RDT EC1













Il radar italiano
Non si può parlare del radar italiano senza fare una breve premessa sulla storia del radar stesso perché le vicissitudini che portarono alla sua realizzazione ed impiego in campo bellico hanno percorso cammini differenti nei vari paesi anche se tutte hanno un inizio in comune. Il problema di rilevare le eco prodotti dalle onde elettromagnetiche si pose fin da quando nel
1901-1902, Kennelly, Heavsyde e Marconi scoprirono che queste onde venivano riflesse dalla ionosfera. Lo stesso problema della riflessione di onde venne successivamente sviluppato in altro campo dall'ingegnere tedesco Hulsmeyer che nel 1904 ottenne il brevetto per un apparato che chiamò "telemobiloscopio" che era in grado di ricevere l'eco di onde elettromagnetiche riflesse da oggetti metallici distanti qualche centinaio di metri. Gli studi e le esperienze proseguirono quasi parallelamente negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Germania, in Francia, in Giappone ed in Italia anche se in ciascun laboratorio le ricerche nel campo della propagazione e della riflessione vennero approfondite senza che gli studiosi avessero ancora formulato esplicitamente l'obiettivo finale delle loro ricerche, cioè quello che in seguito verrà chiamato "Radar" (radio detection and ranging).
Peraltro, mentre nel mondo venivano approfonditi gli studi sulle radiocomunicazioni iniziati da Guglielmo Marconi ed aumentavano le realizzazioni per le comunicazioni a grande distanza, con l'impiego di elevatissime potenze in trasmettitori ad onde "miriametriche", cioè a frequenze bassissime, in Italia Marconi promosse e si fece sostenitore dei collegamenti ad "onde corte", cioè ad alta frequenza, valendosi di sistemi di antenna "a fascio" ed iniziando, a partire dal 1916, una serie di esperienze che sfruttavano la direzionalità dei sistemi "a fascio" . Ciò lo portò ad intravedere il loro utilizzo in campo navale per rivelare la presenza di oggetti metallici a grande distanza. In una relazione rimasta celebre da lui presentata il 20 giugno 1922 all' "American Institute of Electrical Engineers" ed all' "Institute of Radio Engineers", Marconi formulava concrete previsioni circa la possibilità di utilizzare le onde radio per realizzare un sistema ausiliario della navigazione marittima, basato sulle possibilità delle onde elettriche di essere riflesse da corpi conduttori. Tra l'altro disse :
"... In alcune mie esperienze ho rilevato effetti di riflessione e rivelazione di tali onde da parte di oggetti metallici a distanza di miglia. Io ritengo che dovrebbe essere possibile progettare apparati con cui una nave potrebbe irradiare o proiettare un fascio divergente di questi raggi in una qualunque direzione scelta, i quali raggi, incontrando un oggetto metallico, come un altro piroscafo o nave, sarebbero riflessi verso un ricevitore schermato dal trasmettitore locale [ubicato] sulla nave trasmittente e quindi rivelare immediatamente la presenza e la direzione dell'altra nave anche entro nebbia o in tempo cattivo".
Non c'è dubbio, quindi, che nella mente di Marconi già nel 1922 l'idea del radar fosse inequivocabilmente chiara e basata non soltanto su speculazioni teoriche ma anche su riscontri sperimentali. Soltanto a partire dal 1924 i fisici inglesi Appleton e Barnett e, successivamente, i fisici americani Breit e Stuve, con procedimenti completamente diversi, iniziarono gli esperimenti per la registrazione delle eco riflesse dagli strati ionosferici, travasando nella gamma radio la tecnica di rilevazione delle eco già sviluppata nella gamma acustica: gli inglesi seguendo uno schema basato sulla modulazione di frequenza, gli americani seguendo uno schema basato sul metodo ad impulsi. Questi si possono considerare i punti di partenza per gli studi che portarono alla realizzazione di apparati per la radiolocalizzazione, i veri progenitori dei Radar.
Da questi punti di partenza i percorsi della ricerca scientifica si diversificarono nei vari laboratori seguendo principi differenti. Tutti, però, erano accomunati dal fatto che man mano che si delineava più chiaramente la possibilità dell'impiego militare dei risultati, sempre più aumentava la riservatezza sui progressi raggiunti. Alcuni governi ed alcuni Stati Maggiori furono molto lungimiranti nell'intravedere l'enorme importanza che rivestiva, particolarmente in campo navale ed aereo, la localizzazione di ostacoli lontani (potenziali "bersagli") mediante l'impiego di onde radioelettriche. Tale lungimiranza comportò la differenza di assegnazione di risorse economiche e scientifiche per l'approfondimento di questo problema tanto importante. Lo Stato Maggiore inglese, ad esempio, appoggiò decisamente gli studi iniziati dal prof. Watson Watt (poi "sir") che condussero alla realizzazione nel 1935 di apparati sperimentali che, via via perfezionati, fecero sì che all'inizio degli anni '40 l'Inghilterra disponesse di una rete radar costiera per l'avvistamento aereo e di radar navali per la scoperta sia aerea che navale e per la direzione del tiro.
In Italia, invece, per quanto si riferisce allo sviluppo delle ricerche, le cose procedettero in maniera molto, molto diversa. Nel 1933 Marconi eseguì, alla presenza di autorità militari italiane, esperienze sulle fluttuazioni che si verificavano nella ricezione di segnali per effetto del passaggio di automobili nelle vicinanze del fascio di un ponte radio che emetteva onde di 90 centimetri installato fra Roma e Castelgandolfo. A queste esperienze si interessò anche il giovane ingegnere Ugo Tiberio, allora Sottotenente di Complemento in servizio di leva presso l'Istituto Militare Superiore delle Trasmissioni (ISMT) in Roma.
Negli anni successivi, Marconi condusse altre serie di esperienze di radiolocalizzazione fino ad arrivare nel 1935 alla presentazione alle più alte autorità italiane di un apparato chiamato "radioecometro" che però ancora non era abbastanza potente per poter essere di interesse militare. Questa presentazione fu, però, sufficiente per scatenare la fantasia dei giornalisti che arrivarono a parlare di "raggio della morte" scambiando come carbonizzati dalle radiazioni dell'apparato realizzato da Marconi i resti di una pecora che in effetti era stata arrostita da pastori dell'Agro romano !
Per l'approfondimento dell'aspetto militare di questi esperimenti fu costituita un'apposita Commissione interministeriale che affidò l'incarico di continuare le ricerche all'ingegner Tiberio, allora non più Ufficiale di Complemento, ma dipendente dell'ISMT come ingegnere addetto ed insegnante di radiotecnica. L'ingegner Tiberio, per conto suo, fin dal 1931 si era autonomamente interessato a quelli che lui chiamò più tardi "Radio-Detector Telemetri" (RDT) e successivamente più semplicemente "Radiotelemetri" (RaRi) seguendo però sempre le esperienze di Marconi fino a quando, nel luglio del 1937, queste esperienze furono bruscamente interrotte per la morte di quest'ultimo. Nel corso delle sue ricerche, l'ormai "professor" Tiberio prospettò l'opportunità di approfondire le esperienze secondo i due metodi seguiti, rispettivamente, dai fisici inglesi e da quelli americani, cioè sia il metodo che utilizzava la modulazione di frequenza sia quello che utilizzava la tecnica degli impulsi, dato che la tecnologia del momento non privilegiava nessuno dei due metodi a causa delle ridotte potenze che si potevano ottenere con i componenti radio disponibili.
Per le solite limitazioni di bilancio che hanno sempre afflitto (e, ahimè, continuano ancora ad affliggere) la ricerca in Italia, il Comitato interministeriale preferì adottare la soluzione che sembrava la più economica ed il professor Tiberio dovette proseguire le ricerche seguendo soltanto la tecnica della modulazione di frequenza. Sul finire del 1935, Tiberio presentò una sua relazione nella quale era teoricamente sviluppato e risolto in tutti i dettagli, calcoli compresi, il problema della radiolocalizzazione. Di tale relazione che, ovviamente, era segreta, si sono perdute le tracce a causa degli eventi bellici. Lo stesso professore si rammaricava moltissimo di questa perdita perché era la dimostrazione evidente dei risultati ai quali era giunto precedendo tutti gli altri ricercatori nel mondo. Fortunatamente, di recente, i familiari del prof. Tiberio hanno trovato la bozza autografa di una seconda relazione datata 26 aprile 1936 XIV, di pochi mesi posteriore alla relazione del 1935, altrettanto completa e dettagliata e che indirettamente fa riferimento alla precedente [immagine al principio: frammento della prima pagina].
Ancora una volta si vede come fossero state individuate in tempo utile le possibilità offerte da questo particolare impiego delle radiofrequenze ma che, purtroppo, non destarono in chi doveva prendere delle decisioni, il grande interesse che esse meritavano
La proposta del professor Tiberio fu formalmente approvata dal Comitato e siccome il problema era considerato di competenza della Marina, che fra le tre forze armate era quella che dimostrava maggior interesse alla realizzazione del Radiotelemetro ed era la più organizzata dal punto di vista tecnico per la ricerca e lo sviluppo nel campo della radio-elettrotecnica (il termine "elettronica " al tempo ancora non esisteva), nel 1936 fu costituito un gruppo di lavoro diretto dallo stesso professor Tiberio presso il Regio Istituto Elettrotecnico e delle Comunicazioni della Marina (RIEC), ubicato fisicamente nel comprensorio dell'Accademia Navale di Livorno (l'istituto, che nell'ambiente era comunemente chiamato "Istituto EC" o "Marinelettro" , oggi è stato ridenominato Istituto per le Telecomunicazioni e l'Elettronica (Mariteleradar) dedicato al Professore ed Ammiraglio Giancarlo Vallauri che ne fu il primo e per molti anni direttore) . A questo gruppo fu affidato il compito di passare dagli studi teorici alla fase sperimentale. Il professor Tiberio, nel frattempo, era stato nominato Ufficiale di Complemento nel Corpo della Armi Navali e destinato in Accademia come insegnante di fisica e di radiotecnica, rispettivamente, ai Corsi normali ed ai Corsi di perfezionamento degli ufficiali del Genio Navale e delle Armi Navali.
I mezzi finanziari ed il personale messi a disposizione per tale arduo compito furono, però, limitatissimi (quattro sottufficiali, alcuni operai ed una assegnazione annuale di 20.000 lire - circa tredicimila Euro (venticinque milioni di lire) attuali, per cui il professor Tiberio dovette condurre quasi da solo lo sviluppo e la sperimentazione del prototipo del radiotelemetro già progettato teoricamente. Assieme al professor Tiberio iniziò a lavorare nel progetto anche il professor Nello Carrara, altro insegnate di fisica presso i Corsi normali dell'Accademia Navale. Il professor Carrara già dal 1924, giovane fisico, faceva parte dell'Istituto EC e, sin dal 1932 si occupava di ricerche nel campo delle microonde; è sua la creazione del neologismo "microonde" (e di "microwaves") nella letteratura scientifica dell'epoca. Il professor Carrara nel progetto "RDT" si occupò principalmente della progettazione e realizzazione di valvole di potenza e magnetron, componenti, questi, indispensabili per poter ottenere risultati apprezzabili. I due professori, non interrompendo i propri impegni di docenti (lezioni, esercitazioni, preparazione dispense, commissioni d'esame) non disdegnarono di partecipare direttamente anche alla realizzazione manuale e pratica delle apparecchiature.
Nacque così nel 1936 il primo RDT (Radio Detector Telemetro) ad onda continua E.C.1 (acronimo derivato dal nome dell'Istituto EC) cui seguirono nel 1937 l'E.C.1-bis e l'E.C.2 che non dettero risultati soddisfacenti. Nel 1937 entrò a far parte del gruppo di ricercatori il Capitano delle Armi Navali, ingegner Alfeo Brandimarte che cominciò subito a lavorare alla realizzazione sperimentale del prototipo dell'E.C.3, non più ad onda continua modulata in frequenza, ma ad impulsi. Questa collaborazione, però, fu di breve durata perché Brandimarte, per l'entrata in vigore di una strana legge fascista sul celibato, si vide precluse le possibilità di carriera in Marina e fu costretto a dare le dimissioni. Purtroppo cadde poi Martire della Resistenza ed alla sua memoria fu decretata la M.O.V.M.
l team di ricerca tornò di nuovo ad essere composto dal binomio Tiberio-Carrara che continuavano nel frattempo a mantenere i loro impegni didattici ! Vale la pena qui ricordare l'importante contributo fornito dal prof. Carrara che progettò una valvola, realizzata dall'industria italiana FIVRE (Fabbrica Italiana Valvole Radio Elettriche), che permise di raggiungere una potenza di picco di 10 KW e che inserita in un risonatore a cavità ad alto guadagno (Q), anch'esso di sua progettazione, permise di superare la difficoltà di ottenere potenze elevate su onde centimetriche (70 cm).
Nonostante tutto, però, data la lentezza con cui l'industria realizzava quanto progettato dai ricercatori e date le esigue quantità realizzate, si dovettero trovare anche altre strade per ottenere le potenze di picco richieste per una discreta portata del radiotelemetro. Dato che il mercato era ancora libero, si dovettero acquistare negli USA, ed esattamente presso la RCA, le valvole di potenza necessarie per soddisfare le esigenze dei ricercatori. Le prove sperimentali di due prototipi, condotte sempre nell'ambito dell'Istituto EC dalla fine del 1939, rispettivamente RDT3, costiero, ed E.C.3, navale, (dal dicembre 1940 modificato in E.C.3-bis), lasciarono intravedere la possibilità di conseguire risultati significativi. Le prove dell'E.C.3-bis subirono rallentamenti e ritardi sia per la necessità di ulteriori messe a punto, sia per il non eccessivo interesse delle alte gerarchie militari anche se, ad onor del vero, in Marina si stava risvegliando un certo interesse verso quella che nei decenni successivi verrà chiamata "Guerra elettronica". Tuttavia, alla fine di febbraio del 1941 le prove dimostrative dell'E.C.3-bis non erano ancora state eseguite !
Per evidenziare le difficoltà in cui si dibatteva questo esiguo team sembra opportuno riportare testualmente quanto scrisse nel 1951 lo stesso prof. Tiberio rievocando quei tempi pionieristici : " nel 1938, vista la difficoltà di trovare altri ricercatori da dedicare agli studi sul radar, il Ministero della Marina decise di impegnare nel tentativo una importante industria radio milanese, la quale, però, si ridusse a chiedere alla Marina i tecnici necessari avendo essa tutto il proprio personale già impegnato: la Marina non potè esaudire le richiesta e quindi anche questo tentativo rimase senza esito" (Tiberio - Sullo sviluppo delle cognizioni radar italiane durante la guerra - Rivista Marittima - Aprile 1951). Come dire : il cane che si mangia la coda !
Fu soltanto dopo le pesanti perdite subite dalla nostra Marina nella notte tra il 28 ed il 29 marzo del 1941 a Capo Matapan, quando divennero certezza i dubbi che la Marina inglese disponesse di apparecchiature di radiolocalizzazione, che fu rivalutata l'importanza di poter disporre anche in Italia di apparecchiature analoghe. Ancora una volta venne messo sotto pressione l'Istituto EC e, di conseguenza, i professori Tiberio e Carrara. Furono in gran fretta ripristinati i prototipi fino ad allora realizzati e da questi scaturirono due apparati, battezzati rispettivamente "Folaga" e "Gufo" che differivano principalmente per la banda di frequenza di lavoro e che facevano del "Folaga" un prototipo per la vigilanza costiera e del "Gufo" un prototipo per l'impiego navale.
Il "Folaga" operava su una banda compresa tra i 150 ed i 300 Mhz ( 2 - 1 metri) mentre il "Gufo" operava nella banda tra 400 ed i 750 Mhz (75 - 40 cm). Le prestazioni fornite da questi due prototipi furono davvero eccellenti. Si ricorda che durante le prove sperimentali del "Folaga" condotte sulla terrazza dell'Istituto EC nel maggio 1943 fu avvistata ad oltre 200 Km una formazione di aerei USA che stava sopraggiungendo.
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Ugo Tiberio
inventore del "radiotelemetro"
Ugo Tiberio nacque a Campobasso il 19 agosto 1904.
Laureatosi a Napoli nel 1927 in ingegneria civile, si specializzò a Roma nel 1932 in elettrotecnica.
Chiamato alle arme come ufficiale di prima nomina nell'Esercito, passò nel 1936 nella Marina, quale vincitore del concorso per la nomina ad Ufficiale di complemento nel corpo delle Armi Navali. Destinato al RIEC, vi portò a termine gli studi già avviati sul radar, da lui chiamato radiotelemetro.
Fu professore universitario a Livorno, Cagliari, Napoli e Pisa, dove insegnò fino al 1979, anno del collocamento a riposo per limiti di età.
Morì a Livorno il 17 maggio 1980.
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Chiariamo subito una cosa: il radar l'avevamo anche noi. Non lo chiamavamo così, ma l'avevamo.