sabato 14 febbraio 2009

1917 – Il colpo di Zurigo

Dall’affondamento della Benedetto Brin e della Leonardo da Vinci…

Il 27 settembre del 1915, alle ore otto di mattina, alcuni sabotatori austriaci distrussero la corazzata italiana Benedetto Brin, ancorata nel porto di Brindisi, provocando la morte di 456 marinai […] Ai primi di agosto del 1916, sabotatori austriaci si insinuarono nel porto di Taranto, facendo saltare in aria la corazzata Leonardo da Vinci, causando la morte di 248 marinai italiani.
[Martin Gilbert, La grande storia della Prima Guerra Mondiale, Mondatori, Milano 1998, pp. 243 e 341, fonte]

Queste perdite (affondamento della Benedetto Brin, della Leonardo da Vinci e della Regina Margherita, quest’ultima finita in circostanze oscure in un campo di mine appena uscita dal porto di Valona) sono paragonabili ad una vera e propria battaglia navale persa, e rappresentano un trionfo per la rete di agenti nemici, disseminati in ogni ambiente. Amici dell’ex regina Maria Sofia (morta a Monaco di Baviera il 18 gennaio 1925 e sorella di Elisabetta, Imperatrice d’Austria-Ungheria, detta “Sissi”) operavano addirittura accanto al trono del papa. Uno di questi era mons. Rudolph Gerlach, bavarese, legatissimo alla ex regina, che aveva militato nell’esercito austriaco, condannato a morte in contumacia per aver diretto personalmente il sabotaggio della Brin e della Leonardo da Vinci. Quando fu finalmente arrestato [ndr a conclusione e per merito del famoso “Colpo di Zurigo” del 25 febbraio 1917, operazione di contro-spionaggio della Regia Marina Italiana, con la quale venne individuata, smascherata e neutralizzata una pericolosa rete di sabotatori austriaci operante in Italia, grazie alla coraggiosa violazione della cassaforte situata nella sede centrale della Marina austriaca di Zurigo] non fu fucilato bensì, forte delle potenti intercessioni in suo favore, accompagnato alla frontiera svizzera, da dove raggiunse poi la Baviera. […] Di questi casi si è sempre parlato poco o nulla, forse per carità di patria, forse per nascondere responsabilità di personaggi intoccabili.
[Arrigo Petacco, La Regina del Sud, Mondadori 1992, cit. da cinquestelle, che è anche l’autore della annotazione siglata ndr; per altre informazioni su Gerlach, vedi ancora cinquestelle, anche qui]

Antonio Fiori
Il controspionaggio “civile”
Dalla neutralità alla creazione dell’Ufficio centrale d’investigazione 1914-1916
note
76
A. Massignani, La Grande Guerra segreta sul mare, cit., pp. 195-196. A parere di Massignani questi sabotaggi rimangono “questioni ancora aperte della storia segreta della prima guerra mondiale nel nostro Paese, poiché molti particolari rimangono da chiarire”.
77
Vedi Patrick Ostermann, Aspetti della propaganda degli Imperi centrali in Italia durante la prima guerra mondiale, “Ricerche storiche”, 1998, n. 2, pp. 293-314; A. Massignani, La Grande Guerra segreta sul mare, cit., p. 202. L’archivio dell’Ufficio centrale d’investigazione è piuttosto lacunoso, ma può fornire altri elementi. Conserva, tra l’altro, le risposte dei prefetti alla richiesta di informazioni su tutti i marinai, compresi quelli deceduti o dispersi, della Benedetto Brin e della Leonardo da Vinci: condotta morale e politica, eventuali condanne, condizioni economiche dell’individuo e della famiglia, eventuali variazioni di queste condizioni dopo i sinistri che avevano colpito le navi, e così via (ACS, Mi, Dgps, Ufficio centrale d’investigazione, bb. 4 e 5, fasc. 63 “Leonardo da Vinci” e bb. 8 e 9, fasc. 115 “Benedetto Brin”).


La nave da battaglia italiana Benedetto Brin apparteneva alla Classe Regina Margherita. Costruita su progetto elaborato dall’ispettore del genio navale Benedetto Brin e dal generale Micheli era un’ottima unità per la sua velocità, protezione, armamento, qualità marine ad abitabilità. La sua costruzione iniziò nel 1899; venne varata nel 1901 a Castellammare di Stabia e, consegnata alla Regia Marina nel 1905, ricevette la bandiera di combattimento il 1 aprile 1906.
Durante la guerra italo-turca partecipò allo sbarco a Tripoli nel 1911 e l’anno seguente fu impiegata nel Mar Egeo.
La Benedetto Brin andò perduta il 27 settembre 1915 nel porto di Brindisi a seguito all’esplosione della santabarbara, chi dice a causa di un problema con le munizioni, chi in seguito ad un sabotaggio austriaco e chi a causa di sabotatori italiani attratti dalle promesse austriache di una ricompensa in denaro per ogni nave affondata o danneggiata. Perirono 421 tra ufficiali, sottufficiali, sottocapi e comuni, il comandante della 3ª Divisione Navale della 2ª Squadra, contrammiraglio Ernesto Rubin de Cervin, e il comandante della nave, capitano di vascello Gino Fara Forni di Pettenasco. [fonte] [altra scheda, con immagini]

LA TRAGEDIA DELLA CORAZZATA BENEDETTO BRIN
27 settembre 1915
La Grande Guerra infuriava da circa quattro mesi in Europa, e il porto di Brindisi rappresentava un importante teatro per le operazioni militari.
Qui erano ospitate numerose navi militari e da qui salperanno in seguito per le più importanti battaglie i mezzi navali e i sommergibili della flotta italiana.
Erano da poco passate le ore 8 del mattino di quel caldo lunedì 27 settembre 1915, ed un forte boato scuote la città. Sulla corazzata Benedetto Brin, ormeggiata nel porto medio (in prossimità della spiaggia di Marimist), esplode il deposito di munizioni e un forte incendio si sviluppa su tutta la nave, che affonda in poco tempo.
Teodoro Andriani riporta la testimonianza di Fausto Leva, alto ufficiale della Marina: "nel fumo densosi distinse per un momento la massa d'acciaio della torre poppiera dei cannoni da 305 mm, che lanciata in aria dalla forza dell'eplosione fino a metà della colonna, ricadde poi violentemente in mare, sul fianco sinistro della nave. Pochi momenti dopo, dissipato il nembo del fumo, lo scafo della B.Brin fu veduto appoggiare senza sbandamento sul fondo di dieci metri e scendere ancora lentamente, formandosi un letto nel fango molle. Mentre la prora poco danneggiata si nascondeva sotto l'acqua che arrivava a lambire i cannoni da 152 della batteria, la parte poppiera completamente sommersa appariva sconvolta e ridotta ad un ammasso di rottami. Caduto il fumaiolo e l'albero di poppa, si erge ancora dritto e verticale l'albero di trinchetto."
Si intuisce dal racconto come i gas dell'esplosione, seguendo la direzione di minore resistenza, si siano fortunatamente diretti verso l'alto anzichè espandersi lateralmente e causare gravi danni alle navi vicine: la Giulio Cesare, la Dante Alighieri, la Leonardo Da Vinci, la Nino Bixio, l'Emanuele Filiberto, la Saint Bon e la Regina Margherita.
Sui 943 uomini che dell'equipaggio 456 furono i morti, tra loro il CV Gino Fara Fondi e il contrammiraglio Ernesto Rubin de Cervin, rispettivamente comandante della corazzata e comandante della divisione navale insieme ad altri 21 ufficiali, quasi tutti riuniti a rapporto nel quadrato di poppa o in servizio nelle sale macchine, solo 8 ufficiali risultarono superstiti. Ben 369 uomini risultarono irriconoscibili o scomparsi.
I funerali delle prime salme recuperate ebbero luogo il giorno successivo alle ore 16, le spoglie dei marinai furonoi seppellite in un'area cimiteriale messa a disposizione dal Comune, che indisse 3 giorni di lutto cittadino.
Tantissimi i feriti, soccorsi immediatamente dai marinai italiani e francesi e trasportati con i rimorchiatori e le imbarcazioni nelle infermerie delle altre navi presenti nel porto e nell'ospedale della Croce Rossa e quello adibito per l'occasione all'interno dell'albergo Internazionale.
Numerose testimonianze descrivono lo spettacolo raccapricciante dei corpi martoriati e le orribili ferite dei superstiti, delle operazioni di salvataggio che durarono l'intero giorno e la notte, con la cittadinanza riverente che si riversò sulle vie del porto.
La nave fu progettata dall'ingegnere navale e ministro della Marina Benedetto Brin che morì prima del completamento dei lavori; il varo avvenne a Castellammare di Stabia il 7 novembre del 1901 con un costo complessivo per la sua realizzazione di lire 51.350.000. Lunga 138 metri e larga 23, aveva una stazza di 14mila tonnellate ed era dotata di 46 cannoni, 2 mitragliere e 4 lanciasiluri.
Partecipò a diverse battaglie navali nella guerra italo turca del 1911, con il bombardamento dei forti di Tripoli e le operazioni contro Bengasi, la Cirenaica e Rodi. Ha anche partecipato attivamente nella guerra contro gli austriaci.
Le cause dell'esposione non sono mai state chiarite con certezza assoluta, tra le ipotesi formulate con maggiore insistenza c'è quella di un falso prete a servizio dall'Austria, o di un marinaio traditore, che avava collocato un ordigno nei pressi della "Santabarbara" della nave.
Fu subito esclusa l'eventualità di un'azione dei sommergibili nemici, in quanto il porto era chiuso da una rete metallica risultata integra ai successivi controlli.
La commissione d'inchiesta non ha mai confermato nessuna della cause ipotizzate, tra queste anche la combustione spontanea nella zona degli esplosivi.
Antonio Caputo valorizza la tesi della "tragedia annunciata", ovvero la vicinanza della sala macchine alla Santabarbara (deposito munizioni): il calore prodotto dai motori non veniva sufficientemente disperso dai ventilatori, lenti ed inadeguati, che provocò l'autocombustione della balistite presente nei locali, un potente esplosivo a base di nitroglicerina e cotone collodio che esplode fragorosamente e brucia senza produrre fumo. A conferma di ciò nei giorni seguenti fu ordinato, dal comandante della piazzaforte marittima di Brindisi, lo sbarco della balistite anche dalle altre navi.
La deficienza di ventilazione e della refrigerazione era stata segnalata al Ministero nel luglio del 1914 con una lettera manoscritta del comandante della nave Gino Fara Fondi, al quale non fu dato evidentemente il giusto seguito.
Bibliografia:
[1] G.Teodoro Andriani, La base navale di Brindisi durante la grande guerra, 1993
[2] Antonio Caputo, Memorie brindisine, 2004


La nave da battaglia Leonardo Da Vinci fu un’unità della Regia Marina appartenente alla classe Conte di Cavour. Costruita nei cantieri Odero di Genova, venne impostata il 18 luglio 1910 e varata nel 1911 entrando in servizio il 17 maggio 1914. La bandiera di combattimento che misurava 6x4 metri venne donata dalla Società Leonardo da Vinci e dal comune di Vinci e venne consegnata, nel corso di una cerimonia svoltasi alla Spezia, il 7 giugno 1914. Il cofano dell'insegna di battaglia, in bronzo dorato, aveva inciso sulla faccia anteriore il ritratto di Leonardo conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze e su una delle facce laterali un pensiero del genio italiano che divenne anche il motto dell'unità: «Non si volta chi a stella è fiso».
Dislocata alla base della Spezia, nell'imminenza del primo conflitto mondiale l'unità venne trasferita a Taranto, dove si trovava ormeggiata il 2 agosto 1916 quando venne affondata in porto da un sabotaggio austriaco. Nell’esplosione e nel tentativo di salvare la nave morirono 21 ufficiali e 228 uomini del suo equipaggio e tra questi il comandante dell'unità Sommi Picenardi morto due giorni dopo per le ustioni riportate e decorato di Medaglia d'oro al valor militare. In realtà l'ipotesi del sabotaggio, che vedeva coinvolti anche un commerciante ed un commissario di Pubblica Sicurezza non fu mai dimostrata, e successivamente venne anche ipotizzata l'esplosione di una carica di cordite in un deposito di munizioni.
Al termine del conflitto la corazzata venne recuperata per essere riparata e, durante le operazioni di recupero, il 5 agosto 1919 venne ritrovato da un palombaro il cofano contenente la bandiera di combattimento dell'unità. La bandiera era un poco stinta e presentava qualche lacerazione, ma complessivamente era ancora in buono stato. Il cofano e la bandiera sono conservati a Roma al Sacrario delle Bandiere del Vittoriano. il recupero ebbe termine il 17 settembre 1919 ma il progetto della sua riparazione venne abbandonato e l'unità venne venduta per demolizione il 26 maggio 1923. [fonte]

Presso il museo tecnico-navale di la Spezia si trovano: “il modello (n. 1635) della nave da battaglia Leonardo da Vinci (1911 - 1916) progettata dal Masdea e gemella della Cavour e della Cesare (queste due ultime unità furono sottoposte a trasformazione nel 1933, mentre la Leonardo affondò in Mar Piccolo a Taranto nell'agosto 1916 - trattasi di un vecchio modello, inizialmente appena abbozzato, in scala 1:50, servito per studiare il problema del recupero dell'unità; esso poi è stato totalmente rifatto e completato nel Laboratorio di questo Museo);
alcuni cimeli prelevati a bordo della Leonardo, dopo il recupero dell'Unità”.

… al colpo di Zurigo

1
Il colpo di Zurigo: la Marina si vendica


Fu il nostro controspionaggio navale a compiere l'impresa che smascherò i sabotatori della Brin e della Leonardo.
Quindici minuti prima delle ore otto, il 27 settembre 1915, il sole era già alto sul mare davanti a Brindisi. La "Benedetto Brin", bellissimo mostro di ferro alla fonda, inalberava l'insegna ammiraglia con una cerimonia sbrigativa ma austera. Sulla corazzata la vita ricominciava: gli ufficiali davano ordini secchi, i marinai correvano sulla tolda, sottocoperta le macchine ruggivano.
Alle otto precise la tragedia, improvvisa, senza preavviso e perciò ancor più drammatica. Una esplosione tremenda, dal ventre profondo della nave, squassò il mare. Non ci furono contraccolpi, né la massa immensa di ferro fu minimamente sollevata: fu udito soltanto un rombo immane come se mille cannoni avessero sparato all'unisono e subito dopo la corazzata scomparve alla vista, avvolta da un fumo giallo rossastro che si alzò fino a cento metri. Sulle banchine del porto, sulle tolde delle altre navi la vita si fermò. Tutti puntarono gli occhi sulla nube rossa che galleggiava là dove prima dondolava la "Brin". Pochi attimi di attesa e poi la tragedia apparve in una visione che l'orrore e il panico rendevano al rallentatore. Il mostro non tentò di reagire, scivolò di fianco, prima la poppa poi la prua.
Si organizzarono i soccorsi dal porto e dalle navi. Sulla "Brin" si udivano soltanto i lamenti dei feriti, marinai imprigionati da lamiere contorte, altri bloccati nei boccaporti; i vivi dominavano il panico; nessuno lasciò la nave prima che fosse dato l'ordine.
Rimorchiatore e scialuppe caricarono con ordine i superstiti. In un'ora l'operazione di salvataggio era completata. All'appello non risposero 21 ufficiali su trenta; 433 tra sottufficiali e marinai su 906. La corazzata si era portata in fondo al mare 454 uomini.
In un primo momento la versione ufficiale parlò di esplosione della "santabarbara". Una speciale commissione d'inchiesta si mise subito al lavoro.
Sulla scia dei primi accertamenti si creò un'ondata di nervosismo. Comparvero sui giornali le prime critiche. La commissione d'inchiesta continuava i suoi lavori, lasciando intuire una nuova ipotesi: sabotaggio.
La rete di spie che gli austro-tedeschi avevano teso in tutta Europa funzionava da anni. Era una guerra segreta, parallela a quella combattuta sui fronti, intessuta di intrighi e tradimenti. Un'arma invisibile che aveva già dato risultati efficaci, riuscendo a sabotare officine, fabbriche e arsenali.
La commissione trasmise al nostro controspionaggio i propri sospetti, che erano anche quelli della gente comune. E il nostro servizio segreto si mise alla caccia dei traditori.
Ma la strada era lunga e costellata da altre tragedie.
La più spaventosa accadeva pochi mesi dopo, nell'estate del 1916.
Quella sera, il 2 agosto 1916, il Mar Piccolo di Taranto pareva una foresta, con gli alberi della prima squadra navale azzurrati dal mascheramento notturno. Era una notte senza luna e afosa; l’insegna ammiraglia sulla "Cavour" giaceva afflosciata, come le bandiere delle altre navi da battaglia: "Andrea Doria", "Giulio Cesare", "Duilio", " Leonardo da Vinci", "Dante Alighieri".
I marinai erano rientrati dalla libera uscita, alle 22 il trombettiere aveva suonato il "brand'abbasso". Alle 23, mancavano pochi minuti, la "Leonardo da Vinci", fu scossa da un rombo sordo che saliva dal fondo. Lo scafo per un istante tremò e anche gli alberi di poppa e di trinchetto ondeggiarono violentemente.
Poi tornò il silenzio.
Alcuni ufficiali, corsi in coperta, notarono un filo di fumo rossastro uscire dai boccaporti della torre corazzata. Il pericolo di un incendio era serio: là sotto infatti si trovava la "santabarbara".
Esplosioni sempre più frequenti squassavano il ventre della nave, a prua e a poppa; le piastre del ponte si schiodavano; la luce mancò. Per parecchi minuti il panico sconvolse l'ordine delle operazioni che gli ufficiali stavano ordinando. Dall'ascensore delle munizioni una fiammata irruppe in coperta. Gli uomini ammassati a prua si gettarono in acqua, ma centinaia di marinai erano ancora ai loro posti sottocoperta.
Alle 23:40 l'esplosione. La "Leonardo" si spaccò in tanti crateri, con un rombo che percorse l'aria per molte miglia attorno. Fiamme altissime illuminavano la notte; i marinai venivano inghiottiti nelle voragini prodotte dagli scoppi. Alle 23:45 la corazzata si capovolgeva: cominciava un'agonia che non sarebbe stata lenta.
Persero la vita, con 249 marinai, 21 ufficiali; fu distrutta una delle nostre più belle e moderne corazzate.
La catastrofe fu grave. Insieme con la perdita della "Brin", quella della "Leonardo" decimava la potenza della nostra flotta; ma la sciagura gettava nello sgomento l'opinione pubblica, nella quale si diffondevano la certezza e la paura di essere in balia dei sabotatori.
Non solo le due grandi navi "Benedetto Brin" e "Leonardo da Vinci" sono le vittime dei sabotatori.
Un vasto incendio distrugge una intera calata del porto a Genova. Salta in aria a Livorno il piroscafo "Etruria". Un hangar dei dirigibili della marina brucia ad Ancona. Salta il dinamitificio del Cengio. Gravi danni subisce per uno scoppio la centrale idroelettrica di Terni. Più terribile di tutti, un carro ferroviario carico di proiettili navali in partenza dalla fabbrica di munizioni di Pagliari (La Spezia), esplode con terrificante violenza: tra civili e militari muoiono 265 persone. Subito dopo, sabotaggio anche alla stazione di Vallegrande, per fortuna senza vittime.
La guerra rischia di subire una svolta drammatica per l’Italia a causa di un piano terroristico abilmente ordito e che dispone chiaramente di diramazioni e di complicità all'interno del paese. Bisogna combattere subito questo pericolo gravissimo.
Come al solito, é una fortuita e imprevedibile circostanza a mettere sulla buona pista le indagini.
Un uomo viene arrestato dai carabinieri proprio mentre sta piazzando una potente carica di dinamite sotto la diga del bacino idroelettrico delle Marmore Alte, presso Terni. La cattura del sabotatore è importante anche perché conferma un sospetto già radicato nel controspionaggio: si tratta di un italiano, il nemico fa leva su gente disposta a tradire per denaro la patria in guerra. Quasi contemporaneamente altri due individui minano le centrali elettriche del Chiamonte e del Sempione, ma all'ultimo istante uno si pente, si costituisce e parla.
Nella rete che gli austriaci stanno tessendo per colpire al cuore l'Italia, comincia ad aprirsi una falla.
Chi si mette al lavoro per primo è il servizio di controspionaggio della Marina, anche perché la Marina è stata la più duramente colpita. Lo dirige il Capitano di Vascello Marino Laureati, i mezzi sono pochi, gli uomini meno ancora, ma adesso - di fronte alla gravità dei fatti - il Governo si scuote e qualcosa di concreto (in denaro e in specialisti) viene assegnato a Laureati.
Il Capitano si muove bene. Dagli interrogatori dei sabotatori arrestati, e dalle confidenze strappate all'estero da nostri agenti segreti, oltre che dalle notizie fornite dagli informatori, riesce ad accertare che il centro organizzativo dell'azione terroristica si trova in Svizzera. Precisamente a Zurigo, nella sede del consolato austriaco in quella città. Chi tira le fila è il Console in persona, il quale in realtà è un Capitano di Corvetta della Imperial Regia Marina di Vienna.
Il suo nome è Rudolph Mayer, la sua disponibilità di fondi pressoché illimitata, le sue offerte in cambio dei sabotaggi compiuti sulle navi, strabilianti. Per un sommergibile, 300 mila lire; per un incrociatore, 500 mila; per una corazzata, un milione. Denaro di allora. In cifre d'oggi, bisogna moltiplicare almeno per mille: ciò significa che l'affondamento della "Brin" ha reso al sabotatore un miliardo. Di fronte a quelle somme, il traditore si trovava sempre.
La prima mossa di Laureati è di coinvolgere un abile ufficiale di Marina, il Capitano di Corvetta Pompeo Aloisi, diplomatico di carriera. Viene inviato in Svizzera, alla legazione di Berna, e si mettono a sua disposizione alcuni dei più abili seguaci italiani. Aloisi comincia a studiare la situazione e a far sorvegliare la palazzina dove ha sede il consolato austriaco.
Il piano che prepara è arditissimo: entrare nell'ufficio di Mayer, aprire la cassaforte, portar via i progetti dei sabotaggi e le cartelle dei sabotatori, smascherando così l'intera organizzazione.
Al ministero della Marina fanno sapere che non vogliono entrarci. Il "colpo" può suscitare complicazioni internazionali pericolosissime, nessun ufficiale della Marina deve esservi materialmente coinvolto. La cosa si faccia, ma senza compromettere nessuno.
Laureati parla con Aloisi, gli dice che lui è d'accordo: si proceda.
Comincia una delle più strabilianti imprese spionistiche di tutti i tempi.
Si reclutano i partecipanti al "colpo". In primo luogo l'avvocato Livio Bini, di Livorno, un rifugiato a Zurigo che è stato colui che ha segnalato il covo di Mayer. Poi due ingegneri triestini, ottimi agenti segreti: Salvatore Bonnes e Ugo Cappelletti. Infine, gli "uomini di mano": il marinaio Stenos Tanzini, di Lodi, divenuto sottocapo per le sue doti di tecnico e di specialista torpediniere, già arruolato nel controspionaggio navale. Sarà lui il capo della pattuglia. Poi un meccanico profugo triestino, Remigio Bronzin specialista nel fabbricare chiavi. Ancora, un agente di Mayer che fa il doppio gioco, di cui non si saprà mai il nome e che agisce dall'interno del consolato. Infine, uno scassinatore professionista. Si chiama Natale Papini, è di Livorno, sono andati a pescarlo in carcere dove si trova per avere svaligiato una banca di Viareggio, è uno specialista nell'aprire casseforti. Lo convincono facilmente: o a Zurigo per l'impresa, e dopo libero e compensato o subito al fronte. L'équipe è pronta.
Mentre si osserva dall'esterno tutto quanto si svolge nella palazzina (abitudine degli impiegati, orari, aspetto fisico, frequentatori, vie d'accesso, ronde di polizia, ecc.), l'agente del doppio gioco comincia a fornire le prime indicazioni preziose. Dice dove si trova la cassaforte e qual è, ma avverte anche che per giungervi bisogna passare attraverso ben sedici porte, di ognuna delle quali occorre possedere la chiave. Pensa lui a fornire le impronte e presto questa che sembrava una difficoltà insormontabile è superata. Gli uomini di Tanzini hanno le sedici chiavi in questione. Infine, si disegnano addirittura le piante degli uffici, si traccia la strada, si scelgono i tempi dell'assalto. Si stabilisce che si tenterà la notte del 22 febbraio 1917, perché è Carnevale e in quell'occasione la sorveglianza della polizia è rallentata, la gente ha altro da fare che interessarsi alla palazzina del consolato austriaco. Al giovedì grasso, mentre il resto d'Europa è in guerra, Zurigo impazza tra veglioni e coriandoli.
Carichi di pacchi e di valigie (bisogna portare anche la fiamma ossidrica per Papini, i teloni di spesso panno blu per oscurare le finestre), si muovono a notte fonda in quattro: Tanzini, Papini, Bronzin e Bini. Entrano inosservati, si muovono sicuri, aprono una dopo l'altra le sedici porte. Si fermano davanti alla diciassettesima, non prevista da alcuno: l'agente doppio l'aveva sempre vista aperta e non pensava che anche quella fosse chiusa di notte. Bisogna desistere. La sorpresa è terribile. Si raccoglie il bagaglio e si torna sui propri passi.
Si ricomincia da capo con assillante premura. Compiendo autentici miracoli, l'agente doppio fornisce lo stampo della diciassettesima porta a tempo di record. Bronzini fabbrica la chiave. Si decide di ritentare nella notte del ventiquattro, sabato grasso: i due guardiani del consolato saranno assenti, un grosso cane lupo che circola all'interno del giardino verrà addormentato col cloroformio.
Alle ventuno in punto i quattro aprono la porta della palazzina del consolato austriaco e, una dopo l'altra, le sedici porte successive già aperte la volta precedente. Anche la diciassettesima cede e finalmente si arriva nell'ufficio di Mayer, dove si trova la cassaforte da svaligiare. Vengono subito oscurate le finestre con i panni neri per impedire che trapeli luce. Tanzini accende una grossa torcia portatile. Sotto, in strada, a far la guardia, restano Bonnes, Cappelletti e Bini. Dentro, Papini si mette all'opera con la fiamma ossidrica. Aloisi ha calcolato i tempi: se tutto andrà bene, l'operazione durerà poco più di un'ora.
Ne durò quattro. Le pareti d'acciaio della cassaforte resistevano all'attacco, Papini dovette lavorare fino all'esaurimento della resistenza fisica. Quando riuscì a perforare la parete esterna, fuoriuscì un getto di gas venefico, perché gli austriaci avevano fatto ricorso anche a quel marchingegno per garantirsi al massimo contro gli assalti di eventuali scassinatori. Bisognò spegnere la luce, aprire le finestre per far uscire il gas, poi Papini si rimise all'opera coprendosi il naso e la bocca con un panno bagnato, bevendo ogni tanto lunghe sorsate dell'acqua d'un vaso da fiori per placare l'irritazione della gola.
Era l'una passata del mattino quando si poté mettere le mani sul bottino: documenti, codici di cifratura, l'elenco completo delle spie austriache in Italia, il numero dei conti correnti della banca di Lugano dove venivano depositate le somme loro pagate per i sabotaggi, i piani per i futuri attentati (e fu così che si apprese che gli austriaci si stavano preparando a far saltare la "Giulio Cesare" nel porto di La Spezia: e si intervenne in tempo). Nella cassaforte vi era anche una grossa somma di denaro, 650 sterline d'oro e 875 mila franchi svizzeri che passarono al controspionaggio della Marina.
Inoltre gioielli e una preziosa collezione di francobolli, subito depositati presso il ministero della Marina a Roma.
Con tre valigie piene di materiale il "commando" esce dal consolato all'una e mezzo di notte. Nessuno se ne cura. Tanzini e Papini portano le tre valige in stazione. Bini va a casa. Bronzin invece si reca al consolato italiano ad avvisare gli agenti Cappelletti e Bonnes che tutto è andato bene. Poi Bonnes e Bronzin ragiungono Tanzini e Papini alla stazione e partono insieme con loro per Berna, dove Aloisi li attende distrutto dall'ansia. Arrivano alle otto del mattino, Bronzin e Papini proseguono per l'Italia. Per guadagnare tempo e impedire che lo scasso fosse scoperto troppo presto, Bronzin ha spezzato una chiave nella serratura dell'ufficio di Mayer, così che i custodi il mattino successivo dovranno avvertire il capitano austriaco che l'uscio non si apre, si ricorrerà a un fabbro, passerà del tempo e i nostri avranno agio di prendere il largo indisturbati.
A Berna, Bonnes consegna le valigie ad Aloisi e subito fanno lo spoglio del bottino. Tocca a Bonnes stesso, che conosce il tedesco, tradurre i testi. Subito ci si rende conto dell'importanza del "colpo". Basti dire che i due si trovano in mano la relazione completa dell'affondamento della "Leonardo" (con le iniziali del nome dell'affondatore, ing. I. F.) e i piani per far saltare la "Giulio Cesare".
Il giorno dopo Aloisi parte per l'Italia con i documenti più importanti e con i valori rinvenuti, mentre Bonnes prosegue a Berna lo spoglio e la traduzione: passati alcuni giorni, anche lui raggiunge il barone Aloisi nella capitale.
E’stato un trionfo.
Quali i risultati? Vennero fatte retate di spie. Si fecero due o tre processi, conclusi con un pugno di mosche. Alcuni nomi di colpevoli sparirono dalle carte, documenti interessanti vennero strappati o mutilati, personaggi grossi che avrebbero dovuto essere coinvolti restarono nell'ombra. La verità non giunse mai a galla e ogni cosa finì in un insabbiamento generale. I morti di Taranto e di Brindisi, morti per di più per mano assassina di traditori italiani, non ebbero giustizia.
Luigi Bazzoli

2
Il colpo di Zurigo


Conversazione tenuta dal Col. Luciano Salerno il 23 aprile 2001 ai Soci dell'Ass. Spezzina "Amici della Storia" al Circolo Castel San Giorgio di La Spezia

Cosa c’è in quella valigia?

Quando, la notte del 20 febbraio 1917, Stenos Tanzini si sentì prima chiedere i documenti da due gendarmi svizzeri poi il resto temette che tutto fosse finito, che l’impresa per la quale aveva sfidato tanti pericoli e corso così gravi rischi fosse irrimediabilmente naufragata. La pesante valigia con tutto l’armamentario del perfetto scassinatore che trascinava penosamente lo aveva tradito, il suo arresto sarebbe stato inevitabile. Decise di giocare il tutto per tutto, pensando che solo un gesto di audacia e faccia tosta poteva salvarlo.
“Come avete potuto vedere dal mio passaporto sono un ingegnere italiano. Rimpatrio per compiere il mio dovere di soldato; purtroppo, a quest’ora non sono riuscito a trovare un tassì disponibile, e adesso devo trascinarmi questo po’ po’ di peso fino alla stazione “.
Ma facciamo un passo indietro e andiamo a quel mattino del 27 settembre 1915 (17 mesi prima) che aveva segnato tutti gli avvenimenti successivi.

da Domenica del Corriere del 20 marzo 1955

Quindici minuti prima delle 8 del 27 settembre, il sole era già alto sul mare davanti a Brindisi. La corazzata "Benedetto Brin", varata nel 1901 a Castellammare di Stabia, lunga 138 mt.14.737 t/s/l, 4 cannoni da 305/40mm. e 4 da 203/40mm. inalberava l'insegna ammiraglia della III Divisione mentre sulla nave la vita ricominciava come tutti i giorni in qualsiasi caserma del mondo. Gli ufficiali davano ordini secchi, i marinai correvano sulla tolda mentre sottocoperta le caldaie ruggivano. Alle otto precise la tragedia, improvvisa, senza preavviso, dal ventre profondo della nave. Un rombo immane, una esplosione tremenda come se mille cannoni avessero sparato all'unisono e subito dopo la corazzata scomparve alla vista, avvolta da un fumo giallo rossastro che si alzò fino a cento metri. Nel fumo denso si distinse per un istante la massa d’acciaio dei cannoni da 305 mm della torre poppiera che, lanciata in aria dalla forza dell’esplosione ricadde poi con violenza in mare sulla sinistra della corazzata. Il mostro d’acciaio scivolò di fianco, prima la poppa poi la prua toccando il fondo di 10 metri e mentre la prora poco danneggiata emergeva la parte poppiera totalmente sommersa era sconvolta ridotta a un ammasso di rottami. Con l’ammiraglio barone Ernesto Rubin de Cervin morirono il comandante della nave, 21 ufficiali e 433 sottufficiali e marinai su 906 che componevano l'equipaggio. La prima versione diceva esplosione nella "Santabarbara" poi piano piano a frasi mozze cominciarono ad uscire ipotesi peggiori: “sabotaggio”. Sabotaggio come era già successo in terra ferma in fabbriche convertite e arsenali (Ancona, Terni Genova, Napoli etc.). Il sabotaggio ora faceva il salto di qualità, addirittura su una nave ammiraglia. La rete di spie che gli austro-tedeschi avevano teso in tutta Europa funzionava bene, e da anni, nei confronti del loro stesso alleato. Alleato perchè nonostante fossimo in guerra con l'Austria la guerra contro la Germania non era mai stata dichiarata. I tedeschi potevano girare indisturbati per il paese. Il nostro vecchio vizio di tenere i piedi in due staffe. Il nostro servizio segreto (ora operante con una sotto sezione alla marina) si mise in caccia dei traditori.

Un anno dopo, nell'estate del 1916 (2 agosto) la replica. All’ancora nel Mar Piccolo di Taranto, in una notte afosa e senza luna c’era una selva di alberi. Era la Ia squadra con l’ammiraglia "Cavour", "Andrea Doria", "Giulio Cesare", "Duilio", " Leonardo da Vinci"* e "Dante Alighieri". Mancavano pochi minuti alle 23 quando la "Leonardo da Vinci", fu scossa da un rombo sordo che saliva dal fondo. Lo scafo per un istante tremò poi tornò il silenzio. Un filo di fumo rossastro usciva dai boccaporti segno evidente che anche questa volta la "santabarbara" era coinvolta. Fu ordinato l’allagamento dei depositi poppieri di munizioni, ma una violenta fiammata tra le due torri (poppiere) da 305 costrinse i marinai ad allontanarsi, mentre il comandante e gli ufficiali tentavano vani e disperati provvedimenti. Le esplosioni soffocate e distanti si fecero ravvicinate e potenti. Le piastre del ponte si schiodavano mentre la fiammata risaliva il pozzo dell’ascensore delle munizioni con una pressione incredibile. Alle 23:22 l'esplosione. Fiamme altissime illuminavano la notte mentre i marinai al lavoro venivano inghiottiti nelle voragini. Alle 23:45 la corazzata si capovolgeva. Perirono il comandante Sommi Picenardi, altri 20 ufficiali e 227 uomini dell’equipaggio. Nella caccia alla cellula spionistica che aveva organizzato gli attentati venne fuori anche il nome di un alto prelato del Vaticano, il tedesco Gerlach, cameriere segreto del Papa Benedetto XV al secolo Giacomo Della Chiesa distintosi per il suo pacifismo. Naturalmente anche se prove certe in relazione a questi attentati non ce n'erano, ce n'era abbastanza per processarlo in contumacia. (era stato fatto scappare per via diplomatica) alla vigilia del colpo di Zurigo con l'evidente imbarazzo di sua santità. La Germania era formalmente ancora in pace con noi perchè la guerra verrà dichiarata il 28 agosto. Da quel momento l'opinione degli italiani, ma principalmente dei francesi sulla neutralità del Vaticano andò a rotoli e nessuno concesse più un'unghia di credito a quanto usciva dal vaticano.

Stessa conclusione dell'altra commissione d’inchiesta: Sabotaggio. Ma vi furono conseguenze immediate nelle alte sfere: Il Duca degli Abruzzi, responsabile della marina italiana, lasciò l’incarico, e l’ammiraglio Cutinelli, capo della 1ª Squadra navale, fu esonerato . L’inchiesta aperta dal Comando Supremo attribuì l’attentato ai servizi segreti austriaci in concorso con traditori italiani. Imputati furono il commerciante Vincenzi, latitante durante il processo, (probabilmente eliminato dai servizi segreti austriaci perché sospettato di doppio gioco); il Commissario di P.S. Cimmaruta; il capo furiere Criscuolo; il comandante della nave, Picenardi, responsabile di non aver saputo prevenire il sabotaggio, ma ormai morto. Il processo, protrattosi per tre anni, terminò nel giugno del '20 con un’assoluzione per tutti gli imputati per mancanza di prove.
La marina austriaca non era grande ma poteva sia in Adriatico che nel Mediterraneo dare ancora filo da torcere, specialmente se oltrepassava lo stretto d’Otranto coi sommergibili. I sottomarini Austriaci, come le unità navali minori, si dedicavano quindi ad una guerra di colpi di mano contro le nostre basi in Adriatico (Venezia, Ancona), contro naviglio minore anche civile o contro obiettivi della costa, per poi tornare a nascondersi nel dedalo di isole della Dalmazia. Lungo questa costa le loro basi fortificate erano numerose e ben difese da sbarramenti navali (reti e cavi d'acciaio su più linee). Così era per Trieste, Pola, Buccari, Lussino etc...Lungo la nostra costa adriatica la Regia Marina aveva quindi attrezzato treni armati che facevano la spola da Ravenna a Brindisi. Stanarli non era possibile, ma colpirli con le stilettate dei Mas di Rizzo si. "... E loro rispondevano con la stessa moneta sulla base dei mas d'Ancona. 60 commandos partirono da Pola e nella notte sbarcarono a 15 km da Ancona. Parlavano bene l'italiano e vestivano con abiti civili. Nei loro obiettivi, impadronirsi di motoscafi per il ritorno, affondare i sommergibili in rada e una nave austriaca catturata. L'operazione andò bene fino al loro ingresso nei recinti doganali, quando la guardia di finanza insospettita diede l'allarme. L'intero gruppo, compreso alcuni che avevano già disertato in precedenza, fu catturato. L'ultimo colpo che portarono a “termine” in mare".

La fortuna volle che un sabotatore che stava piazzando una carica di dinamite alla diga del bacino idroelettrico delle Marmore (alimentava l’acciaieria di Terni) venisse arrestato. Volente o nolente il “pentito” apre bocca e comincia a dipanare la matassa. Le organizzazioni di questo tipo di solito non fanno capo direttamente al vertice ma a varie cellule ermetiche dove il sottoposto conosce solo chi gli sta direttamente sopra. Il controspionaggio si mette all’opera sapendo che la sua è una corsa contro il tempo. Il Capitano di Vascello Marino Laureati, del servizio di controspionaggio della Marina, è quello che si muove meglio. Dagli interrogatori dei sabotatori arrestati, e dalle confidenze strappate all'estero da nostri agenti segreti riesce dopo mesi ad accertare che il centro organizzativo da cui partono gli ordini e si progettano attentati si trova nella neutrale Svizzera, precisamente a Zurigo, nella sede del consolato austriaco. Ne è a capo Rudolph Mayer Capitano di Fregata della Imperial Regia Marina di Vienna, dietro il paravento ufficiale di console. Se Laureati ha bisogno di soldi per controbattere il nemico, Mayer ne gestisce montagne: la sua disponibilità è pressoché illimitata, le sue offerte in cambio dei sabotaggi compiuti sulle navi, strabilianti, da vivere di rendita anche per il solo affondamento di un guscio a remi. C’era un tariffario.
A console bisogna diplomaticamente ribattere console. A cosa servono se no gli addetti militari. Si trova un diplomatico con un passato operativo, meglio se in marina, come Pompeo Aloisi, che raggiunge la Svizzera. D’ora in poi il suo incarico darà sorvegliare il via vai dall’ufficio di Mayer e alla fine entrare nel suo ufficio, aprire la cassaforte, portar via i progetti dei sabotaggi e le cartelle coi nomi dei sabotatori infiltrati, smascherando così l'intera organizzazione. Il rischio: scoprirsi a condurre operazioni coperte in un paese neutrale ed essere espulsi subito, se andava bene.

I PROTAGONISTI DELLA GUERRA SEGRETA: I SERVIZI DI INFORMAZIONI MILITARI

Per poter più agevolmente cogliere alcuni degli aspetti reconditi che caratterizzarono la "guerra segreta" combattuta tra noi e l'Austria-Ungheria, è necessario delineare brevemente lo stato in cui si trovavano i due Servizi di Informazioni - quello austro-ungarico e quello italiano - allo scoppio delle ostilità, cioè al 24 maggio 1915. Servizio Informazioni austroungarico (Evidenzbureau). La sua nascita risaliva agli inizi del 1800 e, nel corso del secolo, anche per l'importanza politica ed economica assunta dalla Duplice Monarchia, l'Evidenzbureau (questa è la denominazione mantenuta dal Servizio fino al crollo dell'Impero) ampliò i suoi poteri divenendo, quindi, una potente arma che contribuiva efficacemente al mantenimento dell'ordine e della sicurezza del plurietnico Impero. Infatti l'Impero austroungarico, in quanto eminentemente composito, doveva preoccuparsi più di ogni altro di conoscere quello che si preparava contro di esso, non solo all'esterno ma anche all'interno. Da ciò la grande importanza data al Servizio Informazioni che estendeva da per tutto i suoi tentacoli, in intima unione con la Polizia. Quando ai primi mesi del 1915 fu chiaro che l'Italia a breve scadenza avrebbe dichiarato guerra all'Austria, l' Evidenzbureau intensificò in maniera massiccia l'attività informativa ai danni dell'Italia, in ciò coadiuvato anche dai Consolati austriaci di Venezia, Napoli e Milano ancora aperti (dopo le competenze passarono a quelli tedeschi a cui per un errore politico madornale dichiarammo guerra solo l’anno dopo). Nell'imminenza dell'inizio delle ostilità da parte dell'Italia, l'Evidenzbureau potenziò anche tutti i suoi posti periferici di informazione e trasferì in Svizzera, a Zurigo, la "Sezione sabotaggio" dell'Evidenzbureau-Marina, che prima era dislocata a Trieste sotto la denominazione di copertura di "Ufficio di Descrizione Costiera," affidandone la direzione al Cap. di Fregata Rudolph Mayer asso dello spionaggio e Vice-Console a Zurigo,

Il Servizio Informazioni italiano

Il Servizio Informazioni italiano, allo scoppio delle ostilità, risultava, nelle sue diverse componenti, assai carente, sia sotto l'aspetto strutturale che funzionale. L'incalzare degli avvenimenti e soprattutto lo schieramento dell'Italia a favore delle Potenze dell'Intesa, determinatosi negli ultimi mesi, aveva reso necessario ricorrere, in tempi brevissimi, ad una riorganizzazione delle sue strutture informative, orientandole ad operare contro l'Austria-Ungheria, che, come è noto, era stata, unitamente alla Germania, nostra alleata nell'ambito del Trattato della Triplice Alleanza. Mentre il Servizio austroungarico poteva vantare un'esistenza più che secolare, corroborata dalla solida esperienza, dall'elevata preparazione dei Quadri e da profonde motivazioni di ordine ideologico e morale, in un contesto di rigida disciplina militare, che ne esaltava ancor più l'efficienza e l'aggressività, quello italiano era allo stato embrionale e risultava sostenuto più dallo spirito patriottico di qualche ufficiale particolarmente sensibile alle esigenze di intelligence che da una efficiente organizzazione centrale e periferica, tanto che un autorevole uomo politico del tempo lo definì addirittura "dilettantesco." Il Servizio italiano fu quindi ristrutturato e potenziato nel breve volgere di qualche mese, sotto l'incalzare degli avvenimenti. Il suo alleato migliore gli irredenti. Trentini, triestini, fiumani e dalmati non furono da noi sollecitati, ma vennero a noi spontaneamente, insistentemente, a spronarci ad accettare il concorso della loro attività, per la quale rischiavano beni, libertà personale, famiglia e la loro stessa vita.

SI CORRE AI RIPARI: IL RECLUTAMENTO

La Marina non disponeva, nella Confederazione Elvetica, di alcun base d’appoggio, nemmeno fra gli addetti militari che poi sarebbero stati comunque i più sorvegliati. Si trattava quindi di creare ex novo questa struttura: un distaccamento operativo quale premessa indispensabile per dar corso ad una successiva operazione di controspionaggio nei confronti del Consolato. Due volontari di guerra, di origine triestina, il Tenente Ugo Cappelletti, del 3° Artiglieria da Fortezza già dell’Uffico “I” e il Tenente del Genio Navale Salvatore Bonnes, entrambi ingegneri e perfetti conoscitori della lingua tedesca e di esplosivi, con un atto degno della più alta considerazione, proposero allo S.M della Marina di recarsi loro stessi in Svizzera. Cappelletti venne nominato Vice-Console a Zurigo, mentre Bonnes ebbe la nomina di Addetto Commerciale alla Legazione italiana di Berna. Questa era dunque la facciata ufficiale, ma presto sarebbe venuta quella operativa nascosta, segreta, sotto falsi nomi. L’informatore, la gola profonda, era stato quel Livio Bini che da doppiogiochista si offriva contando di sistemare le sue pendenze giudiziarie in Italia (al ritorno ma si disse lo fece quando in Italia da clandestino venne arrestato e si “convinse” solo allora a collaborare).
A questi e ai predetti s'erano aggiunti, alle dipendenze di Laureati, il Ten. di Vasc. Pompeo Aloisi, in diplomazia e già aiutante di campo onorario del Re, ma al momento al IV reparto (Servizio “I”) e il Tenente Vucevich con tre sottufficiali di Marina dattilografi e un profugo triestino, Remigio Bronzin alias "Remigio Frazioni” specialista nel fabbricare chiavi: infine uno scassinatore "professionista" tale Natale Papini da Livorno, pescato in carcere dove si trovava per avere svaligiato una banca di Viareggio. “o al fronte o con noi”, con queste parole si disse venisse arruolato anche Papini che rispose "Meglio il fronte”. In questa versione Papini era in libertà e non ristretto, ma cambiò idea. Questa Sezione staccata del IV Reparto della Marina venne ospitata in un edificio secondario della Legazione di Berna, ubicato sulla Elfenstrasse. L’ufficio zurighese di Mayer per dissidi interni si era intanto trasferito in alcuni locali all’ultimo piano d'un edificio sito tra la Seidengasse e la Bahnhofstrasse. Da ambedue le entrate si accedeva ad una corte interna, dal quale si snodava la scala che portava all'ultimo piano dov'erano gli uffici del Cap. Mayer. Al piano di sotto una banca. Poichè i due ingressi funzionavano anche da passaggio pedonale durante il giorno il via vai di gente e della clientela della banca non davano nell’occhio. Il piano concepito dal Comandante Aloisi, subito considerato pazzesco, prevedeva un forzamento dei locali del Consolato, della cassaforte e il furto dei documenti, dai quali si sarebbe risaliti alla rete di spie e sabotatori operante in Italia. La prima cosa da fare era la "costruzione" delle chiavi del cancello d'ingresso del cortile sulla Seidengasse, che di notte veniva chiuso e di quelle delle porte per arrivare agli uffici e alla cassaforte del Capitano Mayer. Il colonnello Luciano Salerno da conto anche dei tempi e dei modi di reclutamento degli uomini, a dire il vero non lineari, avendo Papini esperto in casseforti, difficoltà con chiavi o sue riproduzioni evenienza che comportò l’arruolamento anche di un altro irredento, Bronzin, ex operaio della Stigler. Il 29 gennaio (10 giorni dopo il suo arrivo) Bronzin fece un resoconto sullo stato dei lavori al Tenente Cappelletti, lamentandosi per il comportamento ambiguo dell'avvocato Bini.

Lo stesso giorno egli consegnò a Bini le prime chiavi che a suo avviso dovevano funzionare, ma l'avvocato che aveva libero accesso ai piani gliele riportò dicendo che passavano la serratura da una parte all'altra. Il 31 gennaio Bini non si presentò all'appuntamento per provare le chiavi e Bronzin, infrangendo gli ordini ricevuti, andò da solo al Consolato austroungarico e qui si accorse di aver fatto un ottimo lavoro. Il 12 febbraio, in una riunione a Berna, il Comandante Aloisi tagliò fuori Bini e procurò a Bronzin l’aiuto del sottufficiale della Regia Marina Stenos Tanzini (foto sopra), originario di Lodi, un vero uomo d'azione, arruolatosi giovanissimo come specialista torpediniere e transitato poi nel Servizio “I”. (Tanzini nottetempo doveva prendere l'impronta con la cera e la sera dopo, Bronzin lavorando, passava ad un'altra porta e così via per notti, fin tanto che non si viene in possesso delle sedici chiavi che permetteranno di raggiungere la cassaforte). In capo a una settimana era tutto pronto: chiave dopo chiave si arrivava alla cassaforte e qui era compito di Papini sempre dubbioso e preoccupato della galera. Si stabilisce che il colpo si tenterà la notte del 20 (22) febbraio 1917 (martedi grasso), perché è Carnevale e in quell'occasione la sorveglianza della polizia è rallentata: la gente ha altro da fare che interessarsi alla palazzina del consolato austriaco. Carichi di pacchi e di valigie (bisogna portare anche la fiamma ossidrica per Papini, i teloni di spesso panno blu per oscurare le finestre), si muovono a notte fonda in quattro: Tanzini, Papini, Bronzin e il redivivo Bini. Entrano inosservati, si muovono sicuri, aprono una dopo l'altra le sedici porte. Si fermano davanti alla 17a, non prevista da alcuno: l'agente doppio l'aveva sempre vista aperta e non pensava che anche quella fosse chiusa di notte. Si torna sui propri passi: ed è qui che Tanzini incontra i poliziotti.

L' ammalato ha superato la crisi, possiamo trasportarlo con il primo treno a Berna

Sulle date c’è un fiorire di numeri e ipotesi. Tutto è posposto al 25 (festivo e a banca chiusa). Sono circa le 22 quando si apre la 17a porta ed ecco l'ufficio di Mayer con la cassaforte da svaligiare e le scrivanie da aprire.Vengono subito oscurate le finestre con i panni neri per impedire che trapelino sia le scintille della fiamma ossidrica che la luce della torcia. Sotto, in strada, a far da palo, Bonnes, Cappelletti e Bini jolly. Dentro, Papini, Bronzin e Tanzini che si mettono all'opera con la fiamma ossidrica. Aloisi ha calcolato i tempi: se tutto andrà bene, l'operazione durerà poco più di un'ora. Ne durò quattro alla luce della lampada ad acetilene conservata attualmente nel Museo tecnico Navale della Spezia al salone superiore [presso il museo tecnico-navale di la Spezia si trova infatti: “una lampadina tascabile (n. 6061) con la quale fu illuminata, nella notte tra il 25-26 febbraio 1917, la cassaforte del Consolato austriaco a Zurigo scassinata da un gruppo inviato dal Servizio Segreto italiano (furono così trovati i nomi delle spie ed il notamento delle opere italiane da sabotare, consentendo di stroncare l'attività delle spie austriache nel nostro territorio.)”]. Le pareti d'acciaio della cassaforte resistevano all'attacco, Papini dovette lavorare fino all'esaurimento della resistenza fisica. Quando riuscì a perforare la parete esterna, fuoriuscì un getto di gas venefico, creato forse da uno strato intermedio non metallico. Bisognò spegnere la luce, aprire le finestre per far uscire il gas. Papini incerto si rimise all'opera coprendosi il naso e la bocca con un panno bagnato e bevendo ogni tanto lunghe sorsate dell'acqua d'un vaso da fiori per placare l'irritazione della gola. Erano oltre le 2 a.m. del 26 quando quando cadde l’ultimo diaframma e si poté mettere le mani sul bottino: oggetti in oro, fotografie, denaro, una collezione di francobolli e molti documenti di rilevante interesse militare e informativo come i codici di cifratura e la lista delle spie. Con tre valigie piene di materiale il "commando" esce verso le 4 dal consolato. Nessuno se ne cura. Tanzini e Papini portano le valige in stazione e Bini va a casa. Bronzin invece si reca al consolato italiano ad avvisare Cappelletti e Bonnes che tutto è andato bene e che avvisino Aloisi (l' ammalato ha superato la crisi, possiamo trasportarlo con il primo treno a Berna ) che stanno arrivando. Poi Bonnes e Bronzin ragiungono Tanzini e Papini alla stazione e partono col primo treno per Berna. Da Berna alle otto del mattino Bronzin e Papini proseguono per l'Italia. Tocca a Bonnes, l’unico che conosce il tedesco, tradurre le prime pagine del rapporto dell'affondamento della "Leonardo" e i nuovi piani per far saltare la "Giulio Cesare" con le sigle dell’informatore italiano.

Tanzini, sulla Domenica del Corriere, raccontava quindi del suo reclutamento

Imbarcato sul cacciatorpediniere Nibbio che aveva gettato le ancore a Civitavecchia, aveva intrecciato una relazione sentimentale con un’attricetta di varietà che « agiva » in un caffè del posto. Una notte, mentre reduce da uno dei soliti convegni clandestini si apprestava a tornare a bordo, fu sorpreso dal suo comandante e, a mo’ di giustificazione, asserì di essere sceso a terra per accertarsi di persona sulla consistenza di talune voci che correvano in città, secondo le quali il deposito di carbone della Marina veniva sistematicamente saccheggiato da ignoti ladri. « Perchè non mi hai avvertito subito? », gli chiese l’ufficiale. « Volevo essere sicuro che la cosa fosse vera », replicò prontamente, ma senza eccessiva convinzione sapendo benissimo che i furti di cui aveva parlato non erano altro che frutto di una sua immaginazione. Grande fu pertanto la sua sorpresa, sentendosi lodare per lo zelo dimostrato ed incitare a proseguire nelle indagini. Tornato al caffè e confidatosi coi l’amica, lo sbalordito Tanzini ebbe subito la spiegazione del mistero: effettivamente, da parecchio tempo ingenti quantitativi di carbone venivano sottratti dal deposito, sia falsificando le bollette e i verbali, sia durante le operazioni di scarico. Com’è naturale, egli si affrettò a riferire tutto quel che aveva saputo al suo comandante; i colpevoli vennero colti con le mani nel sacco, e Tanzini ebbe un encomio. Fu proprio ripensando a quella vecchia storia che Tanzini, allorché vide fiorire sulle labbra di uno dei gendarmi svizzeri la temuta domanda:
- Cosa c’è in quella valigia?- decise di giocare il tutto per tutto, pensando che solo un gesto di audacia e faccia tosta poteva salvarlo. “Come avete potuto vedere dal mio passaporto sono un ingegnere italiano. Rimpatrio per compiere il mio dovere di soldato; purtroppo, a quest’ora non sono riuscito a trovare un tassi disponibile, e adesso devo trascinarmi questo po’ po’ di peso fino alla stazione “.

Gli andò bene. I gendarmi finirono con l’invitarlo a bere qualcosa in compagnia in uno dei pochi caffè ancora aperti a quell’ora…Per avere ragione di quella cassaforte, Aloisi s’era fatto mandare dall’Italia due abilissimi scassinatori, ai quali promise, oltre un grosso premio in danaro, tutti i valori contenuti nel forziere; ma i due, scoraggiati dalle grosse difficoltà che l’impresa presentava, rinunciarono all’incarico. Pensò, allora, di rivolgersi al IV Reparto della nostra Marina, istituito da poco tempo proprio per combattere lo spionaggio nemico, e fu così che entrò in scena Lui. Munito di falsi documenti, egli si reca dapprima a Berna, dove si accorda con Aloisi, e poi a Zurigo, per rendersi conto de visu di quel che si può fare. Suoi collaboratori saranno un livornese, espertissimo nella difficile arte di forzare le moderne casseforti, ed un meccanico che sa contraffare alla perfezione le chiavi più complicate, oltre, naturalmente, quel rifugiato in Svizzera che aveva rivelato ad Aloisi il luogo dov’era custodito l’elenco delle spie.....(si può presumere che questo outing come quello del '58 di Bonnes e la proposta di legge sottostante siano stati innescati dal pessimo film fatto nel '51 sulla vicenda e che riporto in calce per dovere di cronaca) .

25 giugno 1954 camera deputati: si discute di un provvedimento a favore di Papini. On. VIOLA. La proposta di legge, da me presentata insieme ad altri colleghi appartenenti a diversi partiti, si propone di ovviare ad una ingiustizia subita da un benemerito cittadino. È una ingiustizia dovuta non alla volontà né all’intenzione di determinati individui o di determinate autorità o di determinati governi, ma è una ingiustizia che sta nei fatti stessi, implicita nella stessa situazione in cui si è venuto a trovare questo benemerito cittadino di nome Natale Papini, nato e domiciliato a Livorno....... .Detto alto funzionario (Aloisi), per poter assolvere il delicato compito, si rivolse ad un suo concittadino, al meccanico Natale Papini, il quale riuscì a mettere a disposizione del controspionaggio italiano 6 plichi di interessanti documenti, nonché una buona quantità di gioielli. I documenti servirono molto bene al controspionaggio italiano ed i gioielli, che dovevano essere consegnati al pregevole scassinatore Natale Papini, furono invece incamerati dallo Stato italiano, perché il Papini non volle essere ricompensato. Sembra invece che sia stato ricompensato il barone Pompeo Aloisi, i1 quale, da quel momento, almeno così ci dimostra la cronaca del tempo, potè fare una splendida e meritata carriera, nel corso della quale molto spesso, riferendoci al barone Pompeo Aloisi, ci veniva fatto di ricordare l’episodio dei documenti di Zurigo strettamente legato al bravo Papini. Ora, questo benemerito cittadino, che ha continuato a fare il meccanico nella sua città di Livorno, è vecchio (ha compiuto da poco i 73 anni), ammalato, e ultimamente è stato anche vittima di un grave incidente. Una personalità di Livorno, apolitica, scrivendomi nell’interesse di questo poveretto, mi dice fra l’altro: Le affermo con tutta sincerità e franchezza che Natale Papini oggi soffre letteralmente la fame. Ormai impossibilitato a lavorare a causa del recente grave infortunio, aggravato dalla tarda età, senza risorsa alcuna ed oberato di debiti, il povero Papini trovasi in una condizione veramente disperata. Se non si dovesse far presto in suo favore, correremmo il rischio di arrivare troppo tardi.……. arrivarono tardi

Ferdinando Martini, Ministro delle Colonie nel Gabinetto Salandra riporta la seguente annotazione, il 17 giugno 1915, nel suo "Diario 1914-1918" - Anche Paolucci (il Marchese Paolucci di Calboli, nostro ambasciatore a Berna) conferma che Lugano (in genere tutta la Svizzera) è divenuto un centro di infezione anti-italiana, un nido di spie largamente pagate dalla Germania, e di raggiratori, di intriganti volontari e retribuiti. Bisognerebbe sorvergliarli; ma mentre quella è gente che ha aspetto e consuetudini finementi aristocratiche, le nostre spie vengono per lo più dalla polizia, non parlano che italiano e se parlano il francese Dio ce ne guardi! (entrambi male). Lo spionaggio, l'alto spionaggio internazionale, è per noi un libro chiuso.- pubblicato nel 1966 da Mondadori.

Brevi accenni alle azioni di sabotaggio.
Mayer nel suo operato oltre che sui soldi, che rappresentavano il 50% del capitale, contava su disertori, renitenti, anarchici e irredenti che comunque non amavano Roma. Si disse anche che erano coinvolti alcuni politici nella scia di Sofia di Baviera ex moglie di Francesco II delle Due Sicilie, riaprendo quindi un doloroso capitolo meridionalista per i Savoia. Era del gruppo l'avvocato Livio Bini di Firenze (ed altri che diremo come un certo Battistella), che si dichiarava socialista, ma che in realtà era in Svizzera per sfuggire a una condanna per Bancarotta.. L'avv. Bini fu acquisito come informatore dall'organizzazione di "intelligence" del Cap. Mayer, con un compenso mensile di 500 lire (neanche tanto). I mezzi esplodenti adottati andavano da quelli chimici ai tradizionali Ecrasite e Termite.
Questi esplosivi, che venivano inseriti (camuffati) nel carbone impiegato per alimentare le fornaci delle navi a vapore e delle locomotive, scoppiavano danneggiando gravemente le caldaie. Per i depositi munizioni servivano comunque ordigni esplosivi ad orologeria. E’ chiaro che anche a bordo non venissero svolti accurati controlli antisabotaggio e non venisse messa in atto alcuna azione di vigilanza e sicurezza, come i pass per settore. Terminale italiano dei sabotatori era un albergatore di Venezia sulla Riva degli Schiavoni. Questo albergatore forniva gli uomini: al momento un soldato italiano di cavalleria esperto di timer a orologeria e tre marinai che si occupavano di portarle (le bombe) a bordo. Più vicine erano alla "Santa Barbara” meglio era.

dal sito Senato
Pompeo Aloisi dopo essersi guadagnato il titolo di barone il 15 agosto 1919 per servizi resi alla patria, torna ad una carriera diplomatica di alto livello che culmina nel 1932, quando viene chiamato da Mussolini al Ministero degli esteri, assunto ad interim dal Duce(come suo capo di gabinetto). Nel frattempo, rappresenta l'Italia nelle varie conferenze della S.d.N. Viene sostituito il 9 giugno 1936 da Galeazzo Ciano nella pienezza dei poteri del Ministero. Gran cordone dell'Ordine della Corona d'Italia 22 marzo 1928 - Gran cordone dell'Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro 9 luglio 1936. Epurato nel ’44 riabilitato 2 anni dopo. Capitano di vascello nella riserva navale (19 agosto 1927) -Contrammiraglio nella riserva navale (18 giugno 1936)

CONCLUSIONI

In base ai nomi trovati negli elenchi austriaci, molti informatori e sabotatori al soldo del nemico vennero arrestati (circa una quarantina). Tra di essi figuravano i tre responsabili dell'affondamento della corazzata "Benedetto Brin:" i marinai Achille Moschin e Guglielmo Bartolini e il caporale Giorgio Carpi, tre volte disertore del 25° Cavalleggeri di Mantova. Il 1° agosto 1918, dopo un lungo processo, il marinaio Bartolini venne condannato all'ergastolo, mentre il caporale Giorgio Carpi e il marinaio Achille Moschin vennero condannati alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena, condanna poi tramutata in ergastolo. Costoro furono infine graziati e scarcerati tra il 1937 e il 1942, nel nuovo "clima di amicizia e di alleanza" tra l'Italia e il mondo germanico !!!. Con lo stesso spirito: Nel 1939 Hitler conquista la Cecoslovacchia. Chi è il C.S.M dell'Esercito cecoslovacco? E' quel tenente Irsa, principale aiutante di Pivko nella congiura di Carzano che avrebbe portato l'Italia a rovesciare il fronte prima di Caporetto. Hitler che è austriaco di Braunau ricorda certamente l'episodio di Carzano come un tradimento alla sua patria di origine per cui fa immediatamente fucilare Irsa. Non solo, siccome nel museo di Praga erano ricordati come eroi tutti gli appartenenti alla divisione cecoslovacca organizzata dall' Esercito italiano, Hitler li fa ricercare e fucilare. Pivko, lo sloveno si salva perché è morto nel 37.

Sempre Ferdinando Martini "Fra i documenti involati a Zurigo non si trovarono le carte di data anteriore alla nostra dichiarazione di guerra: ma da un copialettere venuto in mano nostra molto si arrivava a conoscere e a ricostruire. E secondo quel copialettere tre deputati al Parlamento italiano sarebbero stati al servizio della Germania, stipendiati o no”.

Furono in seguito arrestati gli ex deputati Adolfo Brunicardi, Enrico Buonanno e Luigi Dini, imputati di intelligenza col nemico e di implicazioni in parte affaristiche e in parte spionistiche. Agenti di Maria Sofia operavano addirittura in Vaticano. Uno di questi era Mons. Rudolph Gerlach, bavarese, legatissimo all'ex Regina di Napoli (che aveva militato nell'esercito austriaco), condannato a morte in contumacia per aver diretto personalmente il sabotaggio della Brin e della da Vinci. Agli oscuri protagonisti del "Colpo di Zurigo" non andò quasi nulla. Il Comandante Pompeo Aloisi, finita la guerra, lasciò la Marina e riprese la carriera diplomatica acquisendo poi cariche e il Titolo di barone nei governi Mussolini. I Tenenti Cappelletti e Bonnes, il sottufficiale della Regia Marina Tanzini e l'operaio Bronzin, furono sempre fieri di aver portato a termine l'operazione per puro amore di patria, senza aver mai chiesto o ricevuto compensi o decorazioni di sorta o altre gratificazioni d’ordine morale. Su tutti loro cadde una coltre di silenzio, tanto che la estrema modestia dei protagonisti scoppiò poi in una dignitosa protesta. Nel settembre del 1958 (dopo l’outing di Tanzini su la Domenica del Corriere del 20 marzo 1955) in una memoria precisa e circostanziata, pubblicata sulla stampa nazionale, Cappelletti e Bonnes illustrarono nei minimi particolari come fu effettivamente preparato ed eseguito il colpo di Zurigo. Rimase invece alquanto deluso Natale Papini, che aveva ricevuto la promessa di potersi appropriare di tutto il denaro rinvenuto nella cassaforte austriaca: egli ricevette soltanto 30.000 lire perché i soldi e i gioielli personali vennero signorilmente nel dopoguerra restituiti al console e alla consorte.














SENZA BANDIERA
Genere spionaggio (Il Colpo di Zurigo)
Produzione LUIGI FREDDI PER ELFO FILM
Regia Lionello De Felice
Soggetto Luigi Freddi
Sceneggiatura
Franco Brusati
Giorgio Prosperi
Jacopo Comin
Lionello De Felice
Nantas Salvalaggio
Scenografia Alfredo Montori
Fotografia Mario Craveri
Musiche Renzo Rossellini
Attori
Carlo Ninchi IL COMANDANTE
Carlo Tusco TELEGRAFISTA MORELLI
Claudio Ermelli
Fanny Marchio'
Guido Celano SOTTOCAPO POGGI
Hans Moog BARONE SVIZZERO
Massimo Serato TEN. MORASSI
Paolo Stoppa IL "PROFESSORE"
Umberto Spadaro LO SCASSINATORE
Vivi Gioi HELDA GRUBER

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